Donne Musulmane tra immaginario e realtà

di Sumaya Abdel Qader

Nella giornata dedicata alle donne vorrei andare oltre il festeggiamento consumistico che anno dopo anno svuota di significato questa ricorrenza e, girare lo sguardo verso un orizzonte ricco di sfide.
In questo primo articolo vorrei soffermarmi su una di queste: la questione della “libertà delle donne musulmane”. Un tema questo spesso evocato per affermare che “le donne musulmane non godono di libertà e pari opportunità  e che sono vittime di violenza e dunque vanno aiutate” segue così la conclusione “l’Islàm tollera la violenza sulle donne quindi è in contrasto con i principi di libertà e dignità della donna” e per estensione a quelli di “democrazia e civiltà ”.

L’oggetto di ricercare di questo articolo è l’ideologia o l’idea che sta alla base di questo pensiero.  Prenderò a titolo esemplificativo la discussa questione del Niqab, per proporre la mia tesi e iniziare a tracciare una via da percorrere.
Prenderò in considerazione principalmente il contesto italiano.
La stampa e il discorso politico italiano, sempre più, affrontano il tema della donna musulmana in modo improrpio e fuorviante. Questo infatti viene legato in modo sconnesso e inopportuno al tema dell’immigrazione, alla sicurezza, alle moschee, al pericolo della perdita d’identità, all’instabilità sociale, alla divergenza dell’Islam dai principi occidentali, laici e democratici. Un minestrone di questioni che diventano ragione di allarmismo di una presunta minaccia dell'integrità culturale del paese.

Così, il mondo islamico è descritto come “l’unica realtà rimasta, in questo mondo civilizzato” che non riconosce i diritti e libertà alle donne. Un discorso, certo non nuovo, specie in ambito della lettura classica orientalista e colonialista ma che oggi ha una diffusione globale e “conseguenze di massa” significative.
Le reazioni da parte della popolazione a questo discorso sono molteplici: paura, diffidenza, confusione, incapacità di prendere posizione e al peggio intolleranza e razzismo.
Cominciamo a individuare “il problema” o forse i problemi. Poniamoci delle domande:

- la questione della libertà e/o dignità delle donne musulmane, oggi, in Italia, che tipo di problema è?
-E’ giusto parlare di donne musulmane generalizzando quando ci si riferisce alla mancanza di libertà e dignità; e in tal senso si può parlare di una causa intrinseca all’islam come religione?

Innanzitutto è sbagliato parlare di donne musulmane generalizzando la loro condizione, si cade nel semplicismo superficiale e non scientifico e ci si rivela ciechi difronte al una complessa e plurale realtà. Dobbiamo e possiamo riconoscere che all’interno della comunità musulmana si possono individuare alcune tendenze che sfavoriscono la libertà e le pari opportunità per le donne, ma è già una diversa impostazione.
Non si possono giustificare queste tendenze puntando il dito “all’arretrata tradizione islamica” perché non ha fondamento, anzi. Semmai andrebbero analizzati altri fattori che possono giustificano certi atteggiamenti come quelli tradizioni locali, culturali, educazione scolastica, interpretazioni strette, chiuse e decontestualizzate del testo coranico e della tradizione profetica.

Quello che alcuni vogliono far passare come il “problema del secolo”, ovvero il rifiuto di riconoscere i diritti, le libertà e la dignità della donna musulmana non fa altro che negare e camuffare il reale problema: una trasversale e preoccupante violenza sulle donne, una trasversale ed irresponsabile politica di discriminazione delle donne e quindi una non raggiunta parità di opportunità, a tutti i livelli della società.

Così, anziché avere un razionale approccio alla lettura di una ampia e complessa questione, il dibattito pubblico si cristallizza sulla presunta “responsabilità” dell’Islam e  la scelta politica si indirizza verso leggi e/o misure restrittive “giustificate”.
Vediamo un esempio critico: la questione del Niqab (il velo integrale che copre il viso, lasciando a volte scoperti solo gli occhi).
Negli ultimi anni si sono distinte più proposte di legge che vorrebbero configurare il reato mirante a sanzionare con arresto da uno a due anni e ammenda da 1000 a 2000 euro (con arresto in flagranza facoltativo) la circolazione a volto coperto per motivi culturali e/o religiosi. Producendo così una specificazione alla legge 152/1975 per i casi di “manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico” fatta eccezione di quelle di carattere sportivo che possano richiedere la copertura del volto con appositi caschi. I motivi culturali e/o religiosi non sarebbero più un “giustificato motivo” per la circolazione a capo coperto in tutti i casi diversi da quelli per i quali il divieto è già previsti dalla legge n. 152.[1]
Tra le varie motivazioni alcune:
a) l’esigenza di protezione dell’ordine pubblico, (ritenuto) minacciato dalla non riconoscibilità/identificazione della persona dal volto coperto;
b) la protezione della dignità umana (art. 2 Cost.), della dignità della donna (art. 2 e 3 Cost.) a cui la copertura del volto risulterebbe imposta da religioni e costumi fondamentalisti e maschilisti.

Ma come si stabilisce che ci possa essere un danno alla dignità umana (specie se la scelta è libera e personale della donna) o che ci sia un pericolo pubblico?
Al di la del giudizio personale o  delle diverse interpretazioni sul se sia obbligo religioso o meno consideriamo l’atteggiamento dei principi costituzionali della repubblica italiana in tema di libertà:
sulla libertà personale (art. 13 Cost.), sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), sulla libertà religiosa (art. 19 Cost.) e sulla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Nelle diverse proposte di legge volte a vietare in Niqab, spesso impropriamente chiamato Burqa, non si parla di un reato “di danno” o offesa al bene giuridico protetto (l’ordine pubblico), ma, piuttosto, un reato “di pericolo”, o peggio un “pericolo presunto”, in cui la messa in pericolo del bene protetto dalla norma penale non deve essere accertato ma viene ritenuta insita nella realizzazione stessa del fatto ( la circolazione a volto coperto) senza necessità di indagine alcuna da parte del giudice e, addirittura, senza alcuna possibilità per l'autore del fatto di provare, in concreto, l'inesistenza del pericolo[2].
Inoltre si ritiene che il circolare a viso coperto per motivi culturali e/o religiosi costituisca un’offesa al bene giuridico della dignità umana e, in particolare, della dignità della donna.
Obiettivamente non ha fondamento fare una legge che sia troppo astratta, che presuma qualcosa, e contrasti con principi fondamentali.

Si può ragionare invece sulla possibiltà concreta e già esistente di identificare la persona coperta in viso, in pieno ottemperamento della normativa vigente, in particolare 1) dell’art. 6  D.lgs. n. 286 del 1998 che, recependo la Direttiva 2004/38/CE obbliga gli stranieri a esibire una carta d'identità o una carta di soggiorno, pena una multa e l'arresto fino a sei mesi; 2) dell’art. 651 c. p. che obbliga i cittadini a fornire, su richiesta di funzionari pubblici, informazioni relative alla propria identità personale, al proprio stato o altre qualità personali (in quest’ultima caso, peraltro, il cittadino non è obbligato a fornire un documento d'identità valido potendo fornire le proprie generalità a voce); 3) dell’art. 4 T. U. L. P. S. in base al quale l’autorità di pubblica sicurezza, nell’ambito delle proprie competenze, ha la facoltà di ordinare ad un individuo pericoloso o sospetto di munirsi di una carta di identità e di esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali di pubblica sicurezza; 4) della circolare del Ministro dell’Interno 24 luglio 2000, n. 300 che impone che “le fotografie di donne con il capo coperto, da apporre sui permessi di soggiorno, consentano comunque un'esatta identificazione delle loro titolari, anche allo scopo di evitare il rischio di un illecito utilizzo dei permessi di soggiorno” [3].
Questo è legittimo, sufficiente.
Inoltre, nello specifico, come si può dimostrare che si lede la dignità di una donna? Secondo quale parametro e riferimento?

Vogliamo punire la scelta della donna di indossare un indumento che ne comprometta la dignità? E se scelta non è, ma imposizione di un uomo, deve pagare ancora lei anzichè denunciare questo ultimo e renderle giustizia?
Comunque, tornando alle proposte di legge presentate e all’ideologia che vi sta alla base, oltre al rischio di imbattersi in una incostituzionalità per contrasto, come sopra detto, c’è quello di corrompere il principio di “laicità” dello Stato (anche se in Italia sarebbe più opportuno di parlare di Stato multireligioso anzichè laico, dove per laico si intende indifferenza dello stato alla cosa religiosa) .
Ancora: la Corte di Strasburgo ha interpretato il principio della dignità della donna come legato strettamente alla sua autonomia, e, dunque, alla sua libertà di scelta (cfr. KA e AD c. Belgio del 17 febbraio 2005).
Questo, ed altro, converge in un più ampio discorso di discriminazione di genere e razzista.
La tesi di fondo è la seguente: (certo non nuova): continua ad esistere un sessismo ordinario e socialmete “accettato” ed un sessismo “straordinario” espressione culturale dell'Altro[4] che racconta una parte delle realtà.

Personalmete non incoraggio il Niqab e non lo reputo un tema fondamentale. Lo prendo comunque ad esempio perché diventato simbolo della strumentalizzazione di un certo discorso politica atto  a manipolare l’immaginario comune distorcendo la realtà con l'obiettivo non sempre dichiarato di confermare l'esistenza di un'opposizione tra un Occidente moderno ed illuminato e un Oriente barbaro ed oscurantista (punto che nasconde un interesse egemonico/economico da parte di un Occidente che non ha mai smesso di cercare di essere superiore al resto del mondo).

Bene, questa certezza, dell’opposizione tra Occidente illuminato e Oriente barbaro (oggi rappresentato dall’Islam) deve essere scardinata.
Domandarsi se la nostra società gode di buona salute è un dovere. Si potrebbe affermare che la salute di una società si calcola in base alla salute delle sue donne.
L’Italia detiene il triste primato di violenza sulle donne entro le mura domestiche in Europa. Prima causa di morte e invalidità permanente.

Concludendo possiamo affermare che esiste una causa comune da sostenere: battersi contro ogni sistema di disinformazione, e irresponsabilità, garantire certezza del diritto a tutte e tutti, senza distinzioni di origine, religione, pensiero, diritti e libertà, promuovendo una cultura delle pari opportunità attenti alle specificità, nel rispetto e responsabilmente.
Avere il coraggio di criticare la nostra società, lottare contro la strumentalizzazione politica, cercare soluzioni a problemi reali: questa è la sfida.




[1] Alessandro Ferrari, commenti alle proposte di legge sul Niqab
[2] A. Ferrari, Ibidem
[3] A. Ferrari, ibidem
[4] Malika Hamidi

1 commenti: (+add yours?)

Unknown ha detto...

sono assolutamente d'accordo con l'articolo che ho appena letto. Penso che noi musulmane siamo tutte coscienti della strumentalizzazione dell'argomento: burqa, nikab o hijab. E' pura strumentalizzazione politica e anche di ignoranza, perchè tanti parlano oggi d'islam, ma veramente pochissimi di questi si sono presi la briga di informarsi seriamente di ciò di cui parlano e scrivono. Pura arroganza occidentale che tende a dettare i criteri su cui impostare i propri giudizi.

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