Per convivere: ritrovare la cooperazione e pensare la vita fuori dal mercato.


di Davide Piccardo


La Storia dell'umanità è segnata da una continua e progressiva perdita di autosufficienza. La possibilità di vivere in assenza di rapporti sociali, produttivi e commerciali con gli altri, è diminuita progressivamente. Mentre l’indipendenza economica dei primitivi era pressoché totale, la società contadina inizialmente si basava sul nucleo famigliare e successivamente, dipendendo dai contesti, su quello tribale; in alcuni periodi storici, sono i villaggi che garantiscono la totalità dei beni e dei servizi necessari alla vita, altre volte questa condizione lascia spazio ad un’integrazione di carattere regionale più ampia, fino ad arrivare agli imperi e successivamente agli stati nazionali, che mantengono relazioni commerciali tra loro. Il passaggio alla società industriale, con la conseguente diversificazione e frammentazione dei processi produttivi, determina una dipendenza dagli altri notevolmente maggiore.


Assistiamo con la globalizzazione ad un fenomeno interessante e contraddittorio: la crescita dell’individualismo va di pari passo con quella dell’interdipendenza . 

Nell’economia postmodernizzata , la ridefinizione delle specificità produttive delle diverse aree del mondo, la relazione della creazione di richezza con la produzione biopolitica, ci rendono sempre più legati gli uni agli altri. L’evoluzione delle possibilità comunicative creano il villaggio globale, portando avanti un processo che spesso è ibridazione culturale e  spesso conquista. Mentre ció accade vediamo come sia sempre più difficile vivere insieme. 


La decomposizione degli stati nazionali, l’aumento dei conflitti, quello dei divorzi, delle violenze in famiglia, la decrescita demografica nei paesi industrializzati e la disaffezione verso i processi associativi politici, sono solo alcuni esempi, che in diversi ambiti, descrivono una tendenza alla difficoltà di stare insieme.

Questa contraddizione non deve stupire, in quanto è il nuovo sistema stesso che si basa su una competizione spinta, ad escludere ogni forma di cooperazione; il capitalismo globalizzato e postmoderno crea dipendenza, fragilitá sociale e paura,  per governare le crisi ed espropriare risorse e diritti; per farlo ha bisogno di rompere i legami famigliari e sociali, impedire la creazione di forti reti popolari , gli stessi stati nazionali rappresentano un ostacolo da rimuovere. 



Stare insieme richiede una volontà ed una capacita di sacrificio, il riconoscimento della propria parzialità, della necessità della collaborazione, dell’inopportunità dell’individualismo, della nostra complementarietà ed interdipendenza. Prendere atto di queste condizioni dovrebbe indurre a rigor di logica a stimolare la cooperazione ed escludere la competizione, ma la possibilità della convivenza passa inevitabilmente dall'amore per la diversità, dalla comprensione profonda del suo senso, della sua bellezza. Comprendere che la diversità è fondamento dell’equilibrio, significa rifiutare la logica della tolleranza, perché, mentre la tolleranza è figlia di un rapporto asimmetrico tra chi la esercita e chi se ne beneficia, il riconoscimento del valore positivo della diversità deriva dall’equilibrio sociale e culturale e contribuisce a mantenerlo. Questo riconoscimento si chiama rispetto.

La creazione divina è testimonianza insostituibile del senso della diversità e gli stessi riferimenti coranici, XVI-93 “ Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità”, fanno emergere una visione che la esalta come dono del Creatore per gli esseri umani e per il mondo. In special modo, possiamo notare come la diversità non è solo un bene in sé, ma anche uno strumento di garanzia della sua continuità e di difesa della vita: XXII- 40· “Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato.”

Le fedi, lungi dall’essere un ostacolo per la convivenza, costituiscono un elemento importante del suo successo in quanto la concezione religiosa rifiuta l’individualismo, propone la solidarietà e la cooperazione, riconosce il valore della comunità e ricorda all’uomo la sua incompletezza e la sua precarietà.


Trattare il tema della convivenza scegliendo come prospettiva quella dei rapporti tra le diverse “comunità di fede” o tra i cittadini di diversa fede, rappresenta un limite alla reale comprensione delle sfide che il futuro ci riserva. La costruzione di una società inclusiva nel nostro Paese procede in modo disordinato ed improvvisato, ma procede. In molte città il pluralismo culturale è una realtà e gli elementi culturali esogeni contribuiscono sempre più alla nascita della nuova italianità; presto le fratture nella convivenza sociale saranno trasversali alle provenienze etniche ed alle fedi religiose. Le divisioni saranno determinate, come già accade, dalle differenze economiche e sociali, dalla disomogeneità dello sviluppo regionale e, ancora trasversalmente, dalla diversità delle concezioni di sviluppo presenti nella società. 


Per questo motivo, non possiamo immaginare una convivenza futura senza pensare all’esigenza dell’elaborazione di una visione collettiva di società e di sviluppo, una visione che partendo dalla critica del modello economico attuale, arrivi a valori comuni e ponga le basi di un patto sociale condiviso, perché la convivenza non può essere la compresenza pacifica di recinti e steccati, non può sostenersi su esistenze che procedono come rette parallele, senza incrociarsi mai.


Un accordo sociale, deve fondarsi principalmente su tre requisiti: la laicità dello Stato, l’equilibro nella distribuzione del potere e la garanzia del rispetto dei diritti umani per tutti. La laicità rappresenta una garanzia di tutela dei diritti e delle libertà per tutti; il campo di intervento legislativo dello Stato si deve limitare alla sfera pubblica, cioè a quegli atti che implicano conseguenze su terzi, mentre la sfera privata, i comportamenti individuali, le cui conseguenze ricadono solo sullo stesso individuo, non possono essere regolati né sanzionati. Lo Stato deve essere presente ed esercitare un’azione efficace nella direzione del controllo delle attività che per loro natura hanno un forte impatto sociale, per tutelare i diritti e le condizioni di vita della collettività, precisamente sull’attività economica. Nello stesso modo deve poter garantire i diritti delle minoranze.


Il secondo punto riguarda nuovamente l’equilibrio, associato alla diversità di cui, come abbiamo visto, è fonte e conseguenza. La democrazia non può prescindere da un’equa distribuzione del potere, una distribuzione che tocchi i vari poteri esistenti, dal simbolico all’economico-politico. L’equità è ancora una volta garante della convivenza. Prevenire i conflitti significa anche elaborare una visione condivisa sui diritti umani per tutti, evitando le guerre tra poveri, fomentate dai detentori del potere per dividere i possibili oppositori allo status quo e respingendo la mercificazione del tutto, che pretende di ingnorare Dio e commerciare la vita.

Questi conflitti derivano dall’incomprensione delle cause del disagio sociale da parte delle stesse vittime. Le vittime delle politiche economiche liberiste, costituiscono quella moltitudine che deve trasformarsi in soggetto propulsore di un cambiamento che metta in discussione la logica della competizione, del dio mercato che distrugge il pianeta e assoggetta la vita umana. Per farlo devono lavorare all’unità, in modo trasversale alle appartenenze religiose e culturali.



I musulmani, in questo contesto, sono chiamati a dare il proprio contributo al disegno di questo progetto comune. Per farlo devono innanzitutto risolvere in modo definitivo la questione dell’appartenenza. Comprendere la preminenza che l’Islam accorda alla appartenenza all’umanità, in quanto la nostra appartenenza religiosa non può negarla né relativizzarla. Non si possono stabilire gerarchie tra gli esseri umani su base economica, etnica o religiosa, in quanto di fronte a Dio gli uomini sono giudicati esclusivamente in base alle proprie azioni e al proprio comportamento.


Se vogliono essere fedeli ai propri valori, i musulmani devono continuare il percorso di apertura intrapreso, assumere completamente la responsabilità che implica la cittadinanza attiva, nonché un ruolo da protagonisti nelle lotte per i diritti comuni, lotte da portare avanti cercando la costituzione di alleanze ampie, con chi ha a cuore il destino del Paese. Devono uscire dalla fase catacombale,  della quale  sono emblematici gli scantinati,  in cui anche simbolicamente il potere li vorrebbe tenere, e avviare un dibattito approfondito su come  farsi portatori della necessità di una riscossa dell’etica.


1 commenti: (+add yours?)

Il partigiano ha detto...

Ottimo pezzo caro Davide, potrebbe diventare una sorta di "manifesto politico". Personalmente vorrei rilanciare questa tua proposta, sto scrivendo qualcosa che dia seguito al dibattito, ritornando su Milano e sulla situazione locale, per declinare il globale nel locale. A fra poco su questo sito....
:-)

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