Per convivere: ritrovare la cooperazione e pensare la vita fuori dal mercato.

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di Davide Piccardo


La Storia dell'umanità è segnata da una continua e progressiva perdita di autosufficienza. La possibilità di vivere in assenza di rapporti sociali, produttivi e commerciali con gli altri, è diminuita progressivamente. Mentre l’indipendenza economica dei primitivi era pressoché totale, la società contadina inizialmente si basava sul nucleo famigliare e successivamente, dipendendo dai contesti, su quello tribale; in alcuni periodi storici, sono i villaggi che garantiscono la totalità dei beni e dei servizi necessari alla vita, altre volte questa condizione lascia spazio ad un’integrazione di carattere regionale più ampia, fino ad arrivare agli imperi e successivamente agli stati nazionali, che mantengono relazioni commerciali tra loro. Il passaggio alla società industriale, con la conseguente diversificazione e frammentazione dei processi produttivi, determina una dipendenza dagli altri notevolmente maggiore.


Assistiamo con la globalizzazione ad un fenomeno interessante e contraddittorio: la crescita dell’individualismo va di pari passo con quella dell’interdipendenza . 

Nell’economia postmodernizzata , la ridefinizione delle specificità produttive delle diverse aree del mondo, la relazione della creazione di richezza con la produzione biopolitica, ci rendono sempre più legati gli uni agli altri. L’evoluzione delle possibilità comunicative creano il villaggio globale, portando avanti un processo che spesso è ibridazione culturale e  spesso conquista. Mentre ció accade vediamo come sia sempre più difficile vivere insieme. 


La decomposizione degli stati nazionali, l’aumento dei conflitti, quello dei divorzi, delle violenze in famiglia, la decrescita demografica nei paesi industrializzati e la disaffezione verso i processi associativi politici, sono solo alcuni esempi, che in diversi ambiti, descrivono una tendenza alla difficoltà di stare insieme.

Questa contraddizione non deve stupire, in quanto è il nuovo sistema stesso che si basa su una competizione spinta, ad escludere ogni forma di cooperazione; il capitalismo globalizzato e postmoderno crea dipendenza, fragilitá sociale e paura,  per governare le crisi ed espropriare risorse e diritti; per farlo ha bisogno di rompere i legami famigliari e sociali, impedire la creazione di forti reti popolari , gli stessi stati nazionali rappresentano un ostacolo da rimuovere. 



Stare insieme richiede una volontà ed una capacita di sacrificio, il riconoscimento della propria parzialità, della necessità della collaborazione, dell’inopportunità dell’individualismo, della nostra complementarietà ed interdipendenza. Prendere atto di queste condizioni dovrebbe indurre a rigor di logica a stimolare la cooperazione ed escludere la competizione, ma la possibilità della convivenza passa inevitabilmente dall'amore per la diversità, dalla comprensione profonda del suo senso, della sua bellezza. Comprendere che la diversità è fondamento dell’equilibrio, significa rifiutare la logica della tolleranza, perché, mentre la tolleranza è figlia di un rapporto asimmetrico tra chi la esercita e chi se ne beneficia, il riconoscimento del valore positivo della diversità deriva dall’equilibrio sociale e culturale e contribuisce a mantenerlo. Questo riconoscimento si chiama rispetto.

La creazione divina è testimonianza insostituibile del senso della diversità e gli stessi riferimenti coranici, XVI-93 “ Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità”, fanno emergere una visione che la esalta come dono del Creatore per gli esseri umani e per il mondo. In special modo, possiamo notare come la diversità non è solo un bene in sé, ma anche uno strumento di garanzia della sua continuità e di difesa della vita: XXII- 40· “Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato.”

Le fedi, lungi dall’essere un ostacolo per la convivenza, costituiscono un elemento importante del suo successo in quanto la concezione religiosa rifiuta l’individualismo, propone la solidarietà e la cooperazione, riconosce il valore della comunità e ricorda all’uomo la sua incompletezza e la sua precarietà.


Trattare il tema della convivenza scegliendo come prospettiva quella dei rapporti tra le diverse “comunità di fede” o tra i cittadini di diversa fede, rappresenta un limite alla reale comprensione delle sfide che il futuro ci riserva. La costruzione di una società inclusiva nel nostro Paese procede in modo disordinato ed improvvisato, ma procede. In molte città il pluralismo culturale è una realtà e gli elementi culturali esogeni contribuiscono sempre più alla nascita della nuova italianità; presto le fratture nella convivenza sociale saranno trasversali alle provenienze etniche ed alle fedi religiose. Le divisioni saranno determinate, come già accade, dalle differenze economiche e sociali, dalla disomogeneità dello sviluppo regionale e, ancora trasversalmente, dalla diversità delle concezioni di sviluppo presenti nella società. 


Per questo motivo, non possiamo immaginare una convivenza futura senza pensare all’esigenza dell’elaborazione di una visione collettiva di società e di sviluppo, una visione che partendo dalla critica del modello economico attuale, arrivi a valori comuni e ponga le basi di un patto sociale condiviso, perché la convivenza non può essere la compresenza pacifica di recinti e steccati, non può sostenersi su esistenze che procedono come rette parallele, senza incrociarsi mai.


Un accordo sociale, deve fondarsi principalmente su tre requisiti: la laicità dello Stato, l’equilibro nella distribuzione del potere e la garanzia del rispetto dei diritti umani per tutti. La laicità rappresenta una garanzia di tutela dei diritti e delle libertà per tutti; il campo di intervento legislativo dello Stato si deve limitare alla sfera pubblica, cioè a quegli atti che implicano conseguenze su terzi, mentre la sfera privata, i comportamenti individuali, le cui conseguenze ricadono solo sullo stesso individuo, non possono essere regolati né sanzionati. Lo Stato deve essere presente ed esercitare un’azione efficace nella direzione del controllo delle attività che per loro natura hanno un forte impatto sociale, per tutelare i diritti e le condizioni di vita della collettività, precisamente sull’attività economica. Nello stesso modo deve poter garantire i diritti delle minoranze.


Il secondo punto riguarda nuovamente l’equilibrio, associato alla diversità di cui, come abbiamo visto, è fonte e conseguenza. La democrazia non può prescindere da un’equa distribuzione del potere, una distribuzione che tocchi i vari poteri esistenti, dal simbolico all’economico-politico. L’equità è ancora una volta garante della convivenza. Prevenire i conflitti significa anche elaborare una visione condivisa sui diritti umani per tutti, evitando le guerre tra poveri, fomentate dai detentori del potere per dividere i possibili oppositori allo status quo e respingendo la mercificazione del tutto, che pretende di ingnorare Dio e commerciare la vita.

Questi conflitti derivano dall’incomprensione delle cause del disagio sociale da parte delle stesse vittime. Le vittime delle politiche economiche liberiste, costituiscono quella moltitudine che deve trasformarsi in soggetto propulsore di un cambiamento che metta in discussione la logica della competizione, del dio mercato che distrugge il pianeta e assoggetta la vita umana. Per farlo devono lavorare all’unità, in modo trasversale alle appartenenze religiose e culturali.



I musulmani, in questo contesto, sono chiamati a dare il proprio contributo al disegno di questo progetto comune. Per farlo devono innanzitutto risolvere in modo definitivo la questione dell’appartenenza. Comprendere la preminenza che l’Islam accorda alla appartenenza all’umanità, in quanto la nostra appartenenza religiosa non può negarla né relativizzarla. Non si possono stabilire gerarchie tra gli esseri umani su base economica, etnica o religiosa, in quanto di fronte a Dio gli uomini sono giudicati esclusivamente in base alle proprie azioni e al proprio comportamento.


Se vogliono essere fedeli ai propri valori, i musulmani devono continuare il percorso di apertura intrapreso, assumere completamente la responsabilità che implica la cittadinanza attiva, nonché un ruolo da protagonisti nelle lotte per i diritti comuni, lotte da portare avanti cercando la costituzione di alleanze ampie, con chi ha a cuore il destino del Paese. Devono uscire dalla fase catacombale,  della quale  sono emblematici gli scantinati,  in cui anche simbolicamente il potere li vorrebbe tenere, e avviare un dibattito approfondito su come  farsi portatori della necessità di una riscossa dell’etica.


L'eccezionalismo islamico

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L'inesplicabile reticenza italiana ad applicare i principi costituzionali ai musulmani
di Layla Mohamed

Dal punto di vista giuridico, è acclarata la tendenza, in dottrina, a considerare la libertà religiosa come privilegiata tra tutte le altre costituzionalmente riconosciute e garantite, in quanto riflesso della libertà di coscienza, che sta a fondamento della dignità umana.
In Italia, i Padri Costituenti vollero assicurare il rispetto della libertà religiosa, con una formula che «non potrebbe essere più ampia»1, alla lettera dell' 19 Cost., attraverso cui la Repubblica garantisce a tutti il diritto di «professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto». Un solo limite è previsto e concerne, non i principi, ma i riti: il buon costume. Esso, secondo la giurisprudenza, va intenso nella sua accezione penalistica come «l'atteggiamento del cittadino comune, mediato dalla sensibilità del giudice, nei confronti del sentimento del pudore».2
Inoltre, la Corte Costituzionale, alla sentenza 203/1989, ha dichiarato di accogliere una prospettiva di “laicità positiva”, intendendo così una valutazione favorevole del fenomeno religioso, cui consegue l'ammissibilità di interventi da parte dello Stato a sostegno delle attività religiose, considerate come interesse dei cittadini meritevole di tutela giuridica. Tanto che, continua la Corte, il principio di laicità «implica, non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale».

Sicuramente, dunque, non è stata la convinzione profonda della necessità di tutelare un diritto costituzionalmente sancito a spingere l'Assessore al Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti, a promuovere una norma nel Collegato ordinamentale, da poco approvato dal Consiglio regionale della Lombardia, con lo specifico «obiettivo di mettere un freno al fenomeno del proliferare dei luoghi di culto mascherati da centri culturali e di tutelare l’identità dei centri storici delle nostre città»3. Pare, in breve, che vi saranno procedure più complicate per l'apertura delle sedi di associazioni che si richiamano ad una confessione religiosa, in quanto esse veranno equiparate a luoghi adibiti al culto e perciò sottoposte a una disciplina più restrittiva. Inutile dire che un tale intervento legislativo ha come destinatari preferenziali i fedeli musulmani residenti nella città di Milano.
Al di là delle considerazioni che possono essere sviluppate circa la costituzionalità di una simile norma, che risulta porsi in netto contrasto con l'art. 20 Cost., si può rilevare, in questa sede, come la garanzia della libertà religiosa (che, nelle forme di individuale, associata e organizzata, è stata annoverata dalla Corte Costituzionale tra i diritti inviolabili dell'uomo)4, relativamente ai musulmani è considerata, in Italia, alla stregua di una mera questione amministrativa di ordine pubblico o di viabilità.

Nel nostro Paese, infatti, il riconoscimento del diritto fondamentale alla libertà di culto e all'esercizio in forma associata della propria confessione da parte dei musulmani, cittadini italiani e non, appare subordinato alle esigenze della prassi urbanistica a livello locale e a più generici “motivi di sicurezza”, che finiscono per annichilirne inevitabilmente il contenuto sostanziale.
A questo riguardo, un importante giurista, Carlo Cardia, ha sottolineato come non vi sia dubbio «che il Costituente ha voluto espressamente escludere dai limiti alla libertà religiosa quello dell’ordine pubblico e l’ha fatto proprio per impedire che per suo tramite si finisse col vietare, o limitare discrezionalmente, l’attività di alcune confessioni religiose (come era avvenuto nel passato regime) sol perché queste non erano in sintonia con il clima politico del momento»5 .
È possibile, di conseguenza, affermare, attraverso le parole di Stefano Allievi, che esiste, oggi in Italia, una «tendenza all'eccezionalismo islamico, ovvero a considerare i musulmani sempre diversi dagli altri, sempre un caso eccezionale». 6


Breve bibliografia:
  • Casuscelli G., “La libertà religiosa alla prova dell’Islām: la peste dell’intolleranza”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale - Rivista telematica , Luglio 2008
  • Ronchi P., “Problemi pratici della libertà religiosa dei musulmani in Italia, Spagna e Regno Unito”, versione 5-07-2010, in corso di pubblicazione/forthcoming in Anuario de derecho eclesiàstico del Estado, 2011

1 Corte Costituzionale, sent. 195/ 1993
2 Colaianni N., “Musulmani italiani e Costituzione: il caso della Consulta islamica”, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2006, p. 257
3 Rossi S., “Giro di vite sui centri islamici «Basta moschee nei capannoni»”, La Repubblica, Milano.it, 15-02- 2011
4 Corte Costituzionale, sent. 143/1973
5 Cardia C., voce Religione (libertà di), in Enc. dir., Aggiornamento, II; Giuffrè, Milano, 1998, p. 932
6 Allievi S., “Islam italiano e società nazionale”, cit, p. 67

La speranza è tener conto dei sogni. La nostra proposta contro precarietá e privilegi

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di Izzedine El Zir 

Contributo del presidente UCOII al documento preparatorio alla 46° Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. Alla questione: “Come ridurre precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, aumentandone la partecipazione, flessibilità ed eterogeneità?” 

Il problema di fondo sta proprio nella parola “mercato”. Ci sembra infatti che sia giusto domandarci se sia eticamente corretto porsi di fronte alla necessità che le persone hanno di vendere la loro forza-lavoro considerando questa fattispecie come qualcosa da mettere su un mercato.

Iddio ha dato alle creature umane corpo e mente, ma anche spirito la Lui proveniente, facendone una eccezione nella Sua creazione, e grazie a questo spirito esse sono qualitativamente diverse da ogni altra specie che cammini, voli o nuoti tra i cieli, le acque e le terre.

Questa diversità, le pone in una dimensione assolutamente unica se è vero com’è vero per noi credenti, che nella natura umana Iddio ha posto caratteristiche che Lo rispecchiano: la bontà, la misericordia, l’anelito alla giustizia, alla ricerca della verità e della conoscenza.

Potremmo quindi porci di fronte allo sforzo degli uomini e delle donne che abitano questa Terra come fosse una merce qualsiasi? Una materia prima o un servizio che si sottopone ad un MERCATO?

Il mercato è una realtà oggettiva o una sovrastruttura costruita ad arte per spossessare le persone del loro diritto ad una fatica possibile, ad una retribuzione equa, ad un uso del tempo equamente diviso tra atttività produttiva, ludica e contemplativa?

Dati recenti di spostamento della ripartizione del PIL  hanno evidenziato come negli ultimi anni, riparandosi dietro una crisi che ha morso l’intero Occidente, ben 8 punti di quell’indicatore siano stati trasferiti dai lavoratori alle imprese che non ne hanno fatto generalmente un buon uso, ma soprattutto alla rendita finanziaria, alla speculazione.

E questo  facendo ricorso alla delocalizzzione e a forme sempre più estreme di precariato, ai contratti così detti “atipici” che con la scusa di andar incontro alle necessità dell’impresa hanno invece ridotto la forza lavoro ad una variante trascurabile nel processo produttivo.

Crediamo con forza che la garanzia del posto di lavoro, ben oltre un elemento di stabilità materiale, sia il presupposto per la progettazione di un’esistenza serena, e dell’edificazione di una famiglia equilibrata e, nella serenità e nell’equilibrio, il Paese non potrebbe che progredire.

Nell’insicurezza della precarietà è insita la depressione degli individui, la rinuncia alla famiglia o la sua procrastinazione sine die, il ricorso a tutto quello che deresponsabilizza incoraggiando ad un edonismo disperato e sterile.

Siamo pertanto convinti che l’utilizzo massimo delle risorse intellettuali e materiali di cui il Paese ancora dispone (ma per quanto tempo ancora) non possa attuarsi senza una diversa concezione dei rapporti di produzione, riequilibrandoli a favore dei lavoratori, che liberati dall’ansia che li attanaglia, potrebbero sviluppare al meglio quelle doti di creatività, inventiva e capacità di sacrificio che hanno fatto dell’Italia (in tempi ormai trascorsi ma non lontani invero) un esempio di sviluppo e sforzo coeso che ha dato risultati straordinari.

L’evasione fiscale, insieme alle criminalità organizzate sono il vero cancro morale ed economico che proietta sinistramente le sue metastasi in quasi tutti i settori produttivi. Oltre a quelli la fatiscenza strutturale della pubblica amministrazione implementa una drammatica inefficenza che incide pesantemente sulla vita di ognuno di noi.

Anni e anni di riforma burocratica hanno sortito miseri effetti sul macrosistema.
Se infatti l’autocertificazione ha eliminato qualche coda negli uffici pubblici, è piuttosto nell’assegnazione degli appalti, nella lentezza mortale tra la decisione politica e la realizzazione delle opere che insiste un’abnorme levitazione dei costi, senza contare l’assenza, o almeno la scarsità, dei controlli sulle realizzazioni che ci ha regalato ospedali mai entrati in servizio, strade costate milioni e milioni che finiscono nel nulla, termovalorizzatori che sono cattedrali nel deserto mentre la monnezzaammorba le città del Sud.

Pertanto, ci sembra evidente che lo strumento fiscale adeguatamente ed equamente utilizzato e una VERA riforma della pubblica amministrazione siano quelli che maggiormente potrebbero contribuire ad un vero New Deal italiano che ridarebbe speranza e forza vitale al Paese, incidendo sui privilegi e sulla malversazioni.

La fuga dei cervelli di cui tanto si parla, è ormai un torrente in piena, di migliaia e migliaia di giovani, preparati e volitivi a cui sembra di non avere nessuna chance in Italia.
Questa risorsa è tanto più preziosa, se consideriamo che la disparità dei costi della vita hanno messo alcune economie orientali (Cina e India segnatamente, ma non solo) nella condizione di essere impareggiabilmente concorrenziali nelle produzioni di basso o medio tenore tecnologico.

La Germania, che se ne uscì dalla II guerra mondiale con immani distruzioni, ha creato un’amministrazione pubblica rigorosa ed efficiente che dialoga con il sistema produttivo e non lo vessa, premia le aziende che investono sull’innovazione e non ha perso la sua rincorsa uscendo per prima dalla crisi nonostante il pesante fardello che si è sobbarcata sostenendo le economie deboli della UE.

Se possiamo costruire automobili come loro e le nostre aziende si aggiudicano importantissimi appalti nel mondo intero, cosa c’impedisce di mutuare il suo esempio virtuoso e le sue buone pratiche amministrative?

Certamente tutto questo avrebbe costi e sarebbero necessari adeguati interventi ed ammortizzatori attivi, ma sarebbe l’ora che non fossero sempre i più deboli a sopportarne il peso. Va da se che nella piramide sociale la parte più ampia è quella sottostante, ma la disattenzione alle sofferenze di questa base rischia di causare un crollo dell’intera figura, con conseguenze inimmaginabili nella loro gravità.

Giovani, immigrati, persone a basso reddito stanno soffrendo le conseguenze di una ricetta bugiarda e ingiusta, quella proposta a suo tempo da quegli economisti chiamati i “Chicago Boys”, che teorizzavano l’assoluta preminenza del mercato e l’espulsione del pubblico dalle attività produttive sostenendo che il mercato avrebbe risolto tutto, riequilibrandosi dopo una fase critica e continuando a garantire a tutti merci e servizi in abbondanza e democrazia politica.

Non si tratta quindi a nostro avviso di applicare correttivi od escamotages finanziari ad una logica fallimentare, ma di avviare un processo di moralizzazione della produzione e della pubblica amministrazione, di costruire speranze e sostenerle, di ridare a questo nostro Paese e ai nostri figli una prospettiva credibile di benessere e libertà

Noi musulmani siamo pronti a fare la nostra parte, coraggiosamente e fattivamente, insieme a tutti gli altri, in sforzo coerente e coeso nell’interesse del bene comune.

Negli occhi dei giovani egiziani brillava da anni la voglia di ribellione

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di Paolo Gonzaga


Il movimento che sta rivoltandosi in Egitto è il popolo intero, stremato economicamente, ricordo bene che ogni anno, quando in estate tornavo in Egitto, l'argomento principale di conversazione era l'aumento perenne dei prezzi e lo stallo degli stipendi , mentre per i giovani, solo disoccupazione. Un paese sotto una dittatura che ha viziato ogni aspetto della vita civile, sottoponendo i suoi cittadini a continue umiliazioni quotidiane, dalle prepotenze dei poliziotti, alle torture per chiunque venisse per sventura preso di mira da un membro dell'enorme apparato poliziesco, questo nella vita di tutti i giorni del cittadino qualunque, per non parlare poi degli oppositori politici, di qualsiasi tendenza.
Un apparato poliziesco consistente in circa 2 milioni di persone raggruppate in varie forme di Polizia ,l'Esercito a parte, 2 milioni su 80 milioni di abitanti con una percentuale di circa 1 poliziotto ogni 40 persone. Un paese dove una gang poliziesco-affaristica, il partito di Mubarak e i vari tycoon che vi ruotavano attorno, o ne facevano parte, faceva il bello e il cattivo tempo, taglieggiando le imprese che non appartenevano direttamente alla banda, spezzando le gambe a qualsiasi tentativo di sperare in una vita senza continue raccomandazioni e tangenti o erogazioni più o meno esplicite in ogni tipo di ambiente, per ogni tipo di lavoro, mansione, operazione burocratica, in una paese dalla burocrazia kafkiana. Il parcheggio, la spesa e perfino per il posto da accattone, tutto regolato da una rigida legge del "taglieggiamento collettivo".


Un paese giovane, dove il 75% della popolazione ha meno di 25 anni ed è molto più letterato di tante gioventù nel mondo, che è connesso, anche i giovani dei quartieri più popolari, dove tutto sembra stare in piedi per miracolo, palazzi, strade e persone, si collegano facendo la fila in "sgarruppati" internet point o si dotano dei cellulari ultimo modello con clonazioni fantastiche che solo in Egitto ho visto fare. Padroneggiano e usano i social media, ovunque le strade sono costellate di internet point, e le case ormai dotate del wireless. Vi sono giovani connessi nell'ampia zona che possiamo considerare "Centro" del Cairo, "wast el balad", nei quartieri medio-borghesi a tratti popolari è una caratteristica del Cairo l'esistenza di zone borghesi, con accanto quartieri di baracche. I giovani si connettono a El Mohandessin, El Doqqi, El Aguza, e poi nel mare del nord della grande Cairo, a Heliopolis, con il suo lusso e le sue miserie, a Madinat al Nasr, immenso quartiere incolore dove abitano milioni di persone, città nella città, generalmente della borghesia statale e ovviamente nel'isola di Zamalek, l'elegante isola rifugio degli italiani delle ambasciate, consolati, grandi compagnie, così come nelle ultra popolari Imbaba, Bulaq Dakrur, 'Omraniyya, Bulaq Abu Leila, Sayyda Zeinab, proseguendo per le sterminate periferie urbane, ovunque l'Egitto è connesso.   



Nei continui villaggi alternati a immensi conglomerati urbani che costeggiano il Nilo come Bani Suef, El Minia, El Asyut, Sohag, Qena, fino ad Assuan, passando per l'immensa campagna degli enormi distretti di Sharqiyya e Gharbiyya milioni di giovani sognano un'altra vita. In un paese dove i laureati sono milioni, dove in poche generazioni si è passati dall'analfabetismo all'alfabetizzazione di massa e alla digitalizzazione diffusa, in un'epoca in cui la Tv satellitare Al Jazeera viene guardata da milioni di giovani arabi provenienti da ogni paese, e le serie Tv anche del genere più leggero hanno sempre uno sfondo sociale, dove milioni di giovani più o meno colti, si trovano senza un futuro che non sia l'umiliante elemosina continua della ricerca di qualche conoscenza per poter ovviare a qualsiasi aspetto della propria vita. 



Senza speranza di un futuro già misero e gramo dei genitori, che hanno da perdere questi ragazzi e queste ragazze? Non ci piace fare la parte dei grilli parlanti e dire “l’avevo detto”, ma era ovvio a mio avviso che si aspettasse solo la scintilla perché tutto esplodesse. Andavo ripetendo da qualche anno ormai che non capivo come il popolo non esplodesse e che secondo me se insistevano troppo con queste politiche che stavano facendo arricchire sempre più una casta di criminali, prima o poi la gente non l'avrebbe più sopportato. Ricordo l'ironia dei parenti, degli amici, quando lo dicevo nei lunghi pranzi infiniti sulla spiaggia popolare di Port Said, con la famiglia allargata, o nelle serate al Cairo al bar degli artisti musicisti, degli "alternativi", e dei filosofi, ora sono fiero di saperli tutti impegnati a fare la rivoluzione. Le vaghe speranze al "baretto" tra Tala'at Harb e Champollion per chi conosce il Cairo, o la quasi rassegnazione nelle chiacchierate alla caffetteria di wast el balad o in quelle dell'Hussein fino a sera tarda con il popolo egiziano bevendo svariati "shayy" (il thé). Lo dicevo nelle cene degli expat, come si fanno chiamare quella specie di neo-colonialisti di cui pullula l'Egitto, alle feste a cui a volte ho dovuto soccombere e annegare la mia disperazione politico-sociale nel dovermi confrontare con tanta gente simile 



Ma pochi erano d'accordo, pochi visionari, gli stranieri, gli italiani in particolare nei loro pregiudizi inconsapevoli, a volte pretendendo di fare i "radical-chic", più spesso con analisi da ignoranti quali sono la maggior parte degli italiani miei connazionali in Egitto, mi bollavano come il solito "sinistroide" che vede possibili rivolte ovunque. Pensavano che il popolo egiziano non avrebbe mai osato ribellarsi perché "pigro di natura", nella loro visione superficiale e ottusa "instupidito dalla religione" , inconsapevoli che anche grazie a quel forte senso di spiritualità diffuso tra il popolo egiziano, potevano vivere così bene in quel paese, e non comprendevano nulla, chiusi nella loro bolla, che già la sola barriera linguistica contribuiva a stabilire. 


Gli egiziani pure in molti sembravano non credermi, scettici anch'essi sulle doti della loro gioventù, troppo presi dai tripli e quadrupli lavori per portare da mangiare a casa e troppo abituati a una vita di dittature, ma io speravo, avevo visto come con tanti giovani potevo parlare del "Principe" di Machiavelli, della letteratura della Resistenza italiana al fascismo, dei canti eroici dei partigiani e delle loro gesta e avevo visto nei loro occhi l'orgoglio di chi pensa che è un onore per un popolo riscattarsi dalla dittatura tramite la ribellione. Ora per fortuna i fatti mi stanno dando ragione, chi mi conosce sa che è tanto che dico queste cose, e per ricordare come sia unito il popolo egiziano a dispetto delle campane mass-mediatiche che difendono lo status-quo, dedicando pagine a un inesistente pericolo che sarebbe rappresentato dai Fratelli Musulmani, voglio riportare le parole di una persona a cui ci sentiamo molto affini e che ha davvero il polso della protesta George Ishak. Cristiano, tra i primi fondatori del movimento "Kifaya" , che dice all'Unità del 7 febbraio: "La protesta popolare è la nostra forza e la protesta si è sempre più allargata unendo la società egiziana. in piazza ci sono giovani e anziani, i diseredati delle periferie e la classe media, musulmani e cristiani". Alla domanda di rito dell'intervistatore: "C'è chi teme che la rivolta apra la strada ai Fratelli Musulmani", George Ishak risponde: "I Fratelli Musulmani non sono un corpo estraneo alla società egiziana, ne fanno parte, ne rappresentano istanze e aspettative. Ma non sono la maggioranza, questo è certo. In elezioni libere potrebbero raggiungere il 20-25% dei consensi. Coinvolgerli pienamente nel processo democratico è un fatto positivo." E sono gli stessi "Fratelli Musulmani" in realtà ad essere rimasti sorpresi dall'ampiezza e dalla popolarità di questa protesta nata da giovani, che ha spiazzato tutti i partiti e i movimenti tradizionali, costringendoli ad emergere e che ora è riuscito a creare una composita alleanza provvisoria tra tutte le opposizioni, vecchie e nuove, delegata alle trattative con quel che resta del regime, ma soprattutto che si è data un imperativo inderogabile, oltre che di una piattaforma. ma l'imperativo è: Via il regime, prima di tutto!

I Fratelli Musulmani e il nuovo Egitto

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di Omar Abdel Aziz


 Abul-Futuh, esponente della corrente riformista della fratellanza egiziana 
Per anni le potenze occidentali hanno sostenuto le peggiori dittature del mondo arabo sventolando lo spauracchio della Fratellanza musulmana, dall'Egitto alla Siria, passando per la Palestina il rischio era che prendessero il potere e istaurassero una repubblica islamica come l'Iran. Regimi arabi hanno governato per decine di anni soffocando libertà, democrazia e diritti umani. Prendiamo il caso dell'Egitto. Per trent'anni i Fratelli musulmani sono stati perseguitati ma anche accettati, se pur indirettamente, dal governo come forza politica e sociale organizzata sul territorio, un movimento dalle diverse diramazioni che offriva servizi lì dove lo stato egiziano non arrivava. La politica della messa al bando del movimento e degli arresti sistematici, per lo più per dirigenti locali, non hanno fatto altro che renderli più forti e legittimati agli occhi del popolo egiziano. Non è un caso se la maggiore forza di opposizione al Regime trentennale del "Faraone" siano stati proprio loro. Gli ikhwan al-muslimin negli anni hanno lavorato su più livelli, da una parte la politica presentando candidati propri o formando soggetti politici di opposizione con altri partiti, ad esempio Kifaya, uno dei promotori delle rivolte anti Mubarak, dall'altra un lavoro nella società, con la forte presenza nei sindacati, nei gruppi studenteschi, negli ordini professionali. Si sono però mossi anche sul piano dell'assistenza alle fasce più disagiate, diverse infatti sono le Ong espressione della Fratellanza in Egitto. Così il movimento si è creato una base popolare di consenso utile alla legittimazione politica di fronte al Regime e al dialogo con gli altri partiti di opposizione. Con la caduta di Mubarak ora si aprono prospettive, anche politiche, per gli islamici.

Ma si possono escludere dal gioco democratico i Fratelli Musulmani?
Non sarebbe di certo un buon inizio, per una vera democrazia, anche perché di fatto, rappresentano legittimamente le istanze di una parte importante della società egiziana. I Fratelli in realtà sono temuti più all'estero che in Egitto, per la loro visione politica e per le posizioni su Israele. Sulla politica diverse sono le spinte all'interno del movimento. Esistono e convivono insieme diverse correnti, alcune conservatrici altre più riformatrici altre ancora moderate. In generale all'Interno della Fratellanza ci si ispira più alla Turchia di Erdogan che all'Iran di Ahmadinejad, un modello per altro poco preso in considerazione per le forti differenze sul modello di gestione del potere , tra i sunniti non esiste l' infallibilità della guida politica e l' elevazione di questo a segno di Dio sulla terra, come è Khomeini. Inoltre in merito al rinnovamento, i giovani del movimento rappresentano senza dubbio l'ala più moderna, una generazione che vuole fare politica utilizzando Facebook, Twitter, le video conferenze e le e-mail, insomma andare oltre gli schemi classici della politica, quella dei comizi e degli annunci. Resta il nodo Israele. Una questione aperta non solo per gli Ikhwan ma anche per le altre forze politiche che ora si preparano a partecipare alla costruzione del nuovo Egitto. Per la stabilità dell’area, la libertà e la democrazia restano comunque elementi essenziali e imprescindibili, e l’Occidente, anche se in ritardo, sembra averlo capito.

L'Islam, i musulmani e la Democrazia

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di Rached Ghannouchi*

Nei circoli ostili all'Islam e ai musulmani è frequente l'accusa secondo cui gli stessi musulmani sarebbero avversi alla democrazia, mettendo in guardia da un loro accesso al sistema politico legale. L'accusa è gravissima, specie in un clima internazionale ostile all'Islam ed ai suoi sostenitori, e in presenza di regimi ormai abituati a governare solo col dispotismo, i quali vivono col terrore dalle richieste di cambiamenti democratici che pervadono il mondo.

Fino a che punto, dunque, questa accusa è credibile? L'Islam e i musulmani sono veramente un pericolo per la democrazia?

1- Onde evitare di perderci nelle varie definizioni della democrazia e per maggiore chiarezza, qui, con democrazia intendiamo quel sistema politico che a prescindere dalla forma – presidenziale o parlamentare che sia – e dagli sfondi culturali, nel senso del suo rapporto con la religione – sia essa cristiana, ebraica, buddista o induista – che sia laico, integralista o moderato. Alla fine è un sistema che con tutte le sue variegate sfaccettature e retroscena si basa su una serie di principi che si concretizzano grazie ad una serie di regole e meccanismi.

Tra i più importanti, l'istituzione del sistema politico sulla base del principio della concitadinanza, nel senso della compresenza di tutti i cittadini in una nazione in cui hanno uguali diritti sulla base di un contratto esplicito tra di loro – in quanto popolo – per la fondazione di un sistema politico "Stato" di cui essi sono sovrani e proprietari. E l'adozione di una serie di meccanismi mediante i quali il Popolo sovrano esercita la propria sovranità praticando un pacifico avvicendamento al potere attraverso elezioni eque, in cui la partecipazione è garantita – direi, in quanto dovere più che un semplice diritto – in egual misura, a tutti i cittadini. Si deve considerare che l'operazione elettorale è l'unica fonte da cui tutti i poteri all'interno di uno stato traggono la loro legittimità: il potere esecutivo – rappresentato dal Capo dello Stato o del Governo, entro una legislatura predefinita – ed il potere legislativo.

L'operazione elettorale potrebbe estendersi includendo i poteri esecutivi circoscrizionali, oltre ai governi locali: comuni, regioni, ecc… e gli altri vari organismi civili che si attivano nell'interesse generale della società, come i sindacati e le federazioni. Il che costituisce un sondaggio periodico sulla tendenza e l'orientamento dell'opinione pubblica per verificare la posizione della maggioranza e perché ciascuna delle parti riveda la propria politica alla luce dei risultati. E alla minoranza va garantito il diritto all'opposizione, riservandole la possibilità di accedere al potere, ogni qualvolta che l'orientamento dell'opinione pubblica è a suo favore trasformandola in maggioranza.

E poiché la libertà e la diversità sono intrinseche alla natura dell'uomo, di conseguenza questo sistema garantisce il diritto alla diversità ed all'esercizio delle libertà umane, in maniera pubblica ed organizzata, come la libertà di pensiero, di credo, di culto, di espressione e di associazione, nonché quelle individuali. Così come è sancito anche il diritto all'equo processo dinanzi ad una magistratura indipendente.

S'impegna a fornire i mezzi minimi per garantire a tutti la dignità umana, come un lavoro retribuito, la sanità e l'istruzione. Diritti, questi, che trovano concordi tutte le carte e le dichiarazioni dei diritti umani.

Tra le regole di questo sistema (democratico) – al contrario del sistema centralista del regime dittatoriale – vi è la distribuzione dei poteri a larga scala, creando in tal modo un regime di controllo reciproco tra i vari poteri e permettendo di sottoporre i capi di ciascuno dei poteri ad eventuali interrogazioni ed interpellanze, sia per mezzo della stampa, sia attraverso le istituzioni costituzionali competenti. In modo che l'esercizio del potere, in qualunque settore, sia sottoposto alla legge. Ciò rende, in definitiva, possibile per l'elettorato esercitare il diritto e la facoltà di ritirare e concedere il mandato. Lo scopo dietro a tali meccanismi è quello di realizzare le condizioni per la dignità umana.

Vi è democrazia, quindi, laddove è garantito ai governati il diritto d'interrogare ed eventualmente sostituire i propri governanti, in un clima di trasparenza e senza difficoltà né ricorso alla violenza. Ove, cioè, la legge è una espressione della volontà del popolo.

La democrazia è una serie di assetti e buoni compromessi raggiunti dalle varie elite della società per governare gli affari pubblici in un clima di concordanza, lontano dall'oppressione e sulla base della concittadinanza e dell'eguaglianza nei diritti come nei doveri, partendo dal presupposto che la patria è proprietà dei suoi cittadini e che l'opinione pubblica – a prescindere dalla diversità dei credi diffusi (all'interno della società, NdT) – sia la fonte di legittimità del potere.

2- Questo sistema, nella sua forma attuale, ha visto la luce solo nell'era moderna, attraversando numerose fasi. Ma è tuttora in fase di sperimentazione in cui è esposto alle regole del progresso. Perciò nessuno gli attribuisce la perfezione, anzi, esso – a causa dei difetti procuratigli ad esempio dall'ingerenza dei detentori del denaro e la loro influenza sull'opinione pubblica, per mezzo dei media. Il che fa venir meno il principio di uguaglianza e rischia di trasformare il denaro e il potere in uno stato per i soli ricchi – viene definito come il sistema meno peggiore.

D'altronde, tra le opere umane, non è sempre facile rilevare i difetti e disporne migliori alternative. E la miglior testimonianza a favore del sistema democratico deriva dalla sua comparazione con altri sistemi. Non si deve quindi lasciarsi travolgere dallo spirito nichilista fino a preferire un regime dittatoriale ad una , seppur imperfetta, democrazia. Non è forse demenziale rinunciare completamente alla democrazia pur di non averla imperfetta? L'altra testimonianza pratica a credito della democrazia è dimostrata anche dall'incremento dell'esilio verso le sue terre. Anche da coloro che pur essendovisi rifugiati hanno fatto della sua denigrazione il loro pane quotidiano. E si sa che normalmente si emigra cercando situazioni migliori – proprio come accadeva ai tempi dello splendore della civiltà islamica quando vari popoli emigravano verso le terre dell'Islam – ciò nonostante tutti i difetti delle varie democrazie che non derivano certo dai meccanismi democratici bensì dall'avidità a dal materialismo del capitalismo.

3- malgrado i continui tentativi da parte dei laicisti estremisti di ideologizzare il sistema democratico – in modo da istituire un legame indissolubile tra la democrazia ed il laicismo nelle sue varie forme, tra cui l'esclusione della religione dalla dimensione pubblica e perfino da quella privata – tuttavia, la realtà pratica di questo sistema dimostra che esso offre basi solide per l'imparzialità dei suoi meccanismi e la loro indipendenza dal concetto ideologico, laico o religioso che sia. Un sistema, questo, che si fonda su compromessi a cui le parti – di appartenenza etnica, religiosa e linguistica comune o differente, totalmente o parzialmente – giungono ricorrendo a strumenti pacifici, al posto di quelli violenti, per risolvere le loro controversie.

E una volta concordi sull'essere dei liberi concittadini in una patria comune e che non vi è alternativa alla convivenza pacifica, troveranno di certo nel sistema democratico quanto gli occorre per regolamentare la loro vita, tutelando i propri interessi comuni nel rispetto dell'uguaglianza nei diritti, attraverso i noti meccanismi democratici che possiedono l'elasticità e la tolleranza sufficienti a permettere la coesistenza di più di un ordinamento legale all'interno di unico stato. Ad esempio in un governo federale – come gli Stati uniti, la Germania, l'India, la Malesia o la Nigeria – è consentito che una o più province adottino un ordinamento giuridico differente da quelli vigenti nelle altre province. Tuttavia non vi è un nesso inscindibile tra la tolleranza del pluralismo e la laicità, poiché essa può essere all'origine di dittature come nel caso dei regimi nazisti e comunisti, oltre ai numerosi regimi arabi, così come può la base culturale di parecchi governi democratici nel mondo. Lo stesso si può dire anche sulla religione, la quale può essere un pretesto per legittimare regimi dittatoriali, come è accaduto nella nostra storia e in quella di altri popoli, ma può anche essere un fondamento per la tolleranza e l'accettazione del pluralismo o perlomeno della convivenza pacifica.

In Giappone e Sri lanka ad esempio vigono democrazie con uno sfondo buddista e in India la democrazia è a sfondo induista. Così come in Europa e America vi sono democrazie con stretti legami con il cristianesimo al punto che alcune omettono nella Costituzione il principio di laicità dello stato. L'esempio è quello del Regno unito dove convergono nella persona del Monarca le due figure di Capo del Commonwealth e Capo della Chiesa. Inoltre nessuno può negare il ruolo della religione in stati come gli Stati uniti, Israele o l'India. Mentre nel mondo islamico i continui tentativi di costruire dei governi democratici e pluralistici incontrano non poche difficoltà, ma con qualche, seppur parziale, successo come nei casi di Malesia, Libano, Iran, Giordania, Yemen, Bahrein, Marocco, Indonesia, Pakistan, Bangladesh e Sudan.

4- Dopo una attenta considerazione non è certo difficile rilevare che non vi è nulla negli insegnamenti o nei propositi dell'Islam né nella sua esemplare esperienza pratica – all'epoca del Profeta e dei suoi successori Califfi ben guidati – che impedisca l'adozione del sistema democratico come rimedio alla dittatura che ha oscurato gran parte della storia dell'Islam e degli altri popoli della terra. Evitando ogni pretesa di ideologizzazione da parte delle due parti opposte: i laicisti estremisti che continuano ad insistere sul principio che dice: o s'importa l'Occidente tutto un blocco o niente. Sull'altra sponda però si trovano i gruppi islamici intransigenti che – al posto di osteggiare le dittature, di cui anch'essi sono vittime – hanno fatto dell'ostilità alla democrazia un elemento fondamentale nella loro propaganda, lanciando contro la democrazia l'abominevole accusa di apostasia, anche se nessuno si è sognato – e chi sa perché – di fare lo stesso con i mezzi di comunicazione e le altre tecnologie sviluppate proprio dall'Occidente. Il quale lo ha fatto in continuità con il retaggio delle civiltà che lo precedettero, specialmente quella islamica che si è fondata su una religione il cui proposito finale è quello di onorare l'uomo : "In verità abbiamo onorato i figli di Adamo". E di considerare, inoltre, che tutti gli uomini sono fratelli per la loro appartenenza ad un unico padre ed un unico Dio, invitandoli a collaborare, unirsi ed istituire fra di loro relazioni basate su giustizia, carità, consultazione e reciproco aiuto a diffondere la pietà e combattere l'ingiustizia che è ritenuta in stretto connesso con l'idolatria. Infatti, le campagne più agguerrite degli scrittori musulmani aveva tra i suoi più acerrimi nemici – dopo l'idolatria – gli ingiusti e i prepotenti, seguaci del Faraone e nemici dei profeti.

In questo senso l'esperienza del Profeta nella Medina è un esempio di giustizia, di consultazione e di tolleranza con il diverso. Esperienza questa culminata con la “As-Sahifa” (la prima costituzione o contratto sociale e politico) la quale ha regolamentato i rapporti tra le diverse componenti sociali e religiose della Medina, su una base ugualitaria che riconosce a tutti – credenti e non credenti, uomini e donne – lo status di concittadini, salvaguardando i loro diritti. Fu uno storico precedente costituzionale di estrema importanza, poiché gettò delle solide basi per tutto quello che – malgrado le deviazioni – ha comunque caratterizzato la civiltà islamica, fra tolleranza religiosa e intellettuale e pluralismo degli ordinamenti giuridici ed educativi all'interno dell'unico stato. Concretizzando in tal modo uno dei nobili principi dell'Islam in materia di libertà di credo e di religione che sta alla base di tutte le libertà: "non vi è costrizione nella religione". Ciò spiega il fatto che la lunga storia islamica non si è mai macchiata di guerre di pulizia etnica o religiosa, contrariamente a quanto accadde in altre civiltà.

Ciò in conformità a quel principio che ha retto l'edificio della civiltà islamica e sintetizzato dal versetto coranico: "a voi la vostra religione a me la mia". Così come il primo raduno tra i più noti compagni del Profeta in seguito alla sua morte nella nota riunione di “As-Sakifa” (porticato), rappresentò una splendida immagine progressista di una istituzione parlamentare che concretizza il valore della consultazione e ribadisce il concetto di stato nell'Islam e la sua perpetuità indipendentemente dalla persona del governante, e che la legittimità del potere in questo stato non la si eredita né la si trae da un testamento oppure da proclami teocratici, bensì da una unica fonte: il popolo. Quando ai cittadini musulmani venne candidato – alla successione del Profeta alla guida dello stato – dall'elite dei Ahl al-Hal wal-Akd (le genti che hanno la podestà di legare e sciogliere), questi approvarono e corsero a porgergli la Bai'a (l'atto del riconoscimento), in base ad un vero e proprio contratto, Bai'a, che costituì la base fondante del governo dei al-Khulafà ar-Rashidun (i califfi ben guidati). Sebbene questo contratto, la Bai'a, sia stato conservato – successivamente al periodo dei califfi ben guidati, e durante l'estesa epoca dei i regimi di sopraffazione –, era però solo nella forma, poiché fu svuotato del suo autentico e profondo significato.

L'avvento di regimi tirannici e la conseguente sospensione della consultazione nelle questioni di governo – anche se proseguì nei campi dell'istruzione e della cultura – fu una delle cause principali del degrado della civiltà islamica. Tuttavia il ritorno allo spirito tribale con una miscela di tradizioni degli imperi teocratici allora vigenti nel mondo, quando furono fondati i grandi stati islamici, aveva quasi completamente svuotato la consultazione – simbolo del potere del popolo – di ogni contenuto. Dando una visione del califfato come fosse una successione al Profeta, mentre la "lettera d'incarico" è rivolta a tutta la comunità di celebrare la preghiera, versare la zakat (l'imposta sulla ricchezza) e di applicare tutte le norme che garantiscono la giustizia, e s'indirizza al califfo solo in quanto mandatario delegato dalla comunità per assolvere alle funzioni di cui è stato investito, previo un contratto reciproco. In base al quale, il califfo, in quanto rappresentante della comunità è in ogni momento soggetto ai controlli. Ma il venir meno delle disposizioni e dei meccanismi che la comunità dei musulmani avrebbe dovuto istituire per facilitare l'esercizio di controllo del califfo, insieme all'offuscamento della loro concezione della consultazione a causa di alcuni modelli teocratici e tribali ereditati, ha facilitato ai tiranni di trasformare il retto califfato in un regime brutale. Ma l'inefficienza dei meccanismi consultativi apparvero già evidenti con le rivendicazioni delle nuove regioni – che si erano convertite di recente all'islam e convinte dei suoi ideali di giustizia – del loro diritto di partecipare al potere e di destituire il terzo califfo. Rivendicazioni che non ebbero successo, poiché quei meccanismi costituzionali esistenti furono istituiti per gestire una società come quella della Medina e non per un Impero.

Ma le motivazioni che il califfo addusse per giustificare il suo rifiuto di cedere alle richieste dei ribelli, erano formulate in maniera tale da lasciar intendere che il potere che egli deteneva gli era stato concesso da Dio. Ma anche il suo successore era convinto che solo la classe dei Al-Muhàjirùn” e “Al-Ansàr” (gli emigrati e gli ausiliari, i primi coloro che fuggirono dalla Mecca e i secondi sono gli autoctoni che li ricevettero e gli dettero sostegno) – che elesse il suo predecessore e da cui era costituita l'elite di Ahl al-Hal wal-Akd) – poteva aver accesso al potere, escludendo i rappresentanti delle nuove grandi regioni. Ciò vuol dire che i meccanismi costituzionali che vigeva in una piccola società come quella della Medina non furono mai sviluppati in modo da consentire di governare una nazione estesa. Di conseguenza, il moderno spirito tribale ed imperiale, prevalse sullo spirito consultativo, puro dell'Islam, trasformando la Bai'a, simbolo del patto tra la comunità ed il governante, in una specie di contratto di compravendita. E così la comunità, l'unico sovrano, è stata ridotta in uno o due uomini, il ché la spogliò del suo potere e la ridusse a proprietà privata. Ciononostante, il governo, successivamente all'epoca di “Ar-Rashidun” – grazie alla mancanza dei mezzi di comunicazione e di controllo che oggi invece sono in mano ai nostri governi – non divenne ancora una dittatura assoluta, giacché non poteva tenere sotto controllo tutti i suoi territori. Ma questo fu al momento stesso anche un ostacolo davanti all'estensione della consultazione all'interno della nazione.

L'Islam, inoltre ha posto dei limiti al potere del governante. Ad esempio il potere legislativo era nelle mani della società, attraverso i Fuqahà (plurale di Faqìh, dottore nella Shari'a) gli unici in grado di estrarre le leggi dalle fonti della religione. La magistratura anche essa era nelle mani dei sapienti dottori – tranne ciò che riguardava le controversie politiche – e nemmeno il potere di stabilire le imposte e le tasse era in mano al governante, poiché erano già prestabiliti dalla Shari'a. Lo stesso valeva anche per i settori dell'istruzione e della cultura che erano fuori dal controllo del governante, erano di competenza degli Ulamà (plurale di 'Alim, sapiente, scienziato, giureconsulto…).

Il governo quindi era in società fra i governanti e gli 'Ulamà. Ma le dittature nel mondo islamico di oggi hanno imposto in modo arbitrario il loro controllo su tutto, persino sul potere religioso, trasformando gli 'Ulamà in piccoli impiegati al suo servizio e mettendo mano su tutte le istituzioni tradizionali della società, tra cui l'antica istituzione del Waqf (fondazione pia che gestisce i lasciti dei musulmani a scopi di beneficenza e di bene comune) che fu alla base dell'indipendenza della società civile e dei suoi 'Ulamà dal governo.

Ed è questo che fa degli attuali governi (nel mondo islamico) una spregevole bizzarria, più simile ai regimi feudali dell'Europa premoderna e lontani anni luce dall'esempio delle democrazie moderne, le cui lesioni ai principi della democrazia derivano dai loro propositi nazionalistici a scapito di quelli umanistici, e dal loro concentrarsi sugli interessi ed i valori materiali. Il che offre all'Islam l'opportunità di ridare equilibrio al sistema democratico sfruttando i meccanismi che la democrazia offre e che in realtà non hanno nulla di contrastante con lo spirito dell'Islam. Anzi!




Traduzione di Mohamed Saber Mhadhbi



*Rached Ghannouchi è un intellettuale e uomo politico Tunisino, leader del movimento Ennahda, dopo anni di esilio a Londra è da poco ritornato in Tunisa.

Mubarak infierisce sul suo popolo, utilizzando criminali comuni ed assassini di regime

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di Paolo Gonzaga

I criminali pagati dal regime, galeotti delle peggiori specie, assassini, stupratori, psicopatici drogati, guidati da poliziotti dell' "Amn al Dawla", la tristemente famosa "Sicurezza Nazionale", hanno saccheggiato e continuano ancora oggi a saccheggiare le case degli egiziani, a spargere il terrore fra la popolazione. Alcuni miei parenti mi hanno raccontato di essersi chiusi in casa terrorizzati chiamando aiuto dal terrazzo all'arrivo di queste squadracce che tentavano di entrare nelle case dei palazzi di Madinat al Nasr, enorme conglomerato nella zona nord, nord-est del Cairo. La popolazione sa bene chi sono questi delinquenti chiamati da tutti "baltagiya", anzi "baltaghiya" con la "gh" come si usa nel Nord Egitto. Le fughe dalle prigioni avvengono sotto gli occhi di tutti, sembra un gioco, vedi i prigionieri calarsi dalle cinta carcerarie con le guardie impassibili, i tesserini di poliziotti e agenti della Sicurezza Nazionale soon ormai merce comune tra i manifestanti che sono riusciti a strappargliene un bel pò durante gli scontri a Piazza Tahrir e altrove. I torturatori della Sicurezza Nazionale, una delle ciliegine del regime infame di Mubarak, sono famosi per la triste disumanità e bestialità: non c'è tipo di tortura che non sia stata praticata, anche se da un pò di anni andava per la maggiore rapire qualche donna della famiglia, la moglie, la sorella, la madre... e poi violentarla davanti agli occhi del malcapitato. In genere dopo avergli strappato denti, rotto ossa sottoposto a scariche elettriche e "waterboarding" e botte in quantità. E le prigioni segrete per gli oppositori....E la violenza quotidiana degli appartenenti alle forze dell'ordine tanto servili con il ricco e il potente quanto arroganti e aggressive con il cittadino comune che doveva solo subire.

Comunque altri parenti mi dicono che girando per il Cairo hanno provato tanta tristezza per come è ridotta, irriconoscibile per le violenze e i saccheggi degli sgherri di regime, ma questo anziché intimidire o reprimere ha fatto crescere ancora più rabbia e determinazione, e anche chi ad un certo punto si era trovato su posizioni più tese al compromesso ora con questi assassini non vuole più aver nulla a che fare!