Il mondo arabo guarda verso Istanbul e l'occidente scivola sulla democrazia

0 commenti

di Ilyes Piccardo

“L'occidente guarda con interesse e talvolta con favore agli avvenimenti in corso nel nord d'Africa, auspicandosi che venga scongiurato il pericolo dell'islamismo.” 


Sostanzialmente è questo il concetto che la quasi totalità dei media occidentali stanno facendo passare nell'opinione pubblica, sfruttando le occasionali dichiarazioni dei politici europei e statunitensi. L'ideale potrebbe quasi dirsi nobile dal loro punto di vista: preservare la luce del cambiamento dalle scure e pericolose nubi islamiche. Ma possiamo affermare con certezza che il timore dell'occidente sia una deriva islamica, che tolga la libertà appena acquisita?

Piuttosto, osservando con maggiore attenzione la situazione, risulta emerge la preoccupazione che possa ripetersi quanto già accaduto in Turchia. La nascita e lo sviluppo di un partito politico di carattere islamico, che sia riuscito a distinguersi, oltre che per la popolarità, per l'ottima politica, efficace e lungimirante, è stato un duro colpo per i consolidati rapporti di forza internazionali. In particolare l'AKP è riuscito a modificare il sistema turco, riducendo il forte controllo dell'esercito sullo Stato, nonché le ingerenze dello Stato stesso nella vita privata, nelle libertà individuali. La prospettiva che, anche negli stati nordafricani, possa emergere con le proteste un forte ed organizzato movimento politico islamico, che riesca ad inaugurare con successo la nuova stagione democratica, con l'apprezzamento del popolo, diffonde l'inquietudine gli USA e le potenze europee. A fronte di un'apertura del movimento islamico in Egitto verso una democrazia che coinvolga largamente le forze d'opposizione interessate, comprendendo i movimenti laici e di sinistra, le contromisure non tarderanno ad arrivare. Dopo i primi passi falsi, come il sostegno francese a Ben Ali in Tunisia e l'iniziale attendismo statunitense con Mubarak in Egitto, la politica occidentale sta comprendendo il corso degli eventi e certamente cercherà di ribadire il proprio dominio sulle economie e le decisioni di quegli stati, indirizzandone le nascenti forze politiche. Un immediato sostegno economico e mediatico ad alcuni particolari gruppi e partiti ne favorirebbe l'asservimento. La speranza è che la crescente sensazione di poter determinare il proprio destino, non risulti un idillio temporaneo. I popoli tunisino ed egiziano hanno la grande possibilità di cambiare finalmente il proprio presente e il contributo delle forze islamiche potrà essere decisivo, per il bene dei paesi e delle loro popolazioni.

0 commenti

I tunisini sapranno gestire il proprio futuro?

0 commenti

di Ilyes Piccardo

La fuga-cacciata dell'ormai ex presidente Ben Ali, ha suscitato il primo vero grido di esultanza alla popolazione tunisina, al movimento di giovani, che ha visto il primo evidente risultato della protesta, portata coraggiosamente avanti. Ma il passaggio ad un governo pro tempore, guidato dal presidente del parlamento, in attesa delle elezioni, non può impedire di porsi alcuni interrogativi sul futuro della Tunisia. La nuova posizione dell'esercito in particolar modo, con un accresciuto potere, crea forti dubbi su quale sarà il suo ruolo nei prossimi tempi; al limite tra quello di garante, della svolta democratica della nazione, e quello di minaccia, in grado di imporre la propria forza al di sopra di ogni aspirazione del movimento. I messaggi finora trasmessi vanno nella prima direzione, almeno apparentemente, con dure azioni nei confronti della polizia, accusata di essere ancora fedele al fuggitivo Ben Ali. Occorre osservare lo sviluppo degli eventi con molta attenzione, per riuscire a comprendere, al meglio e il prima possibile, fino a dove questa operazione dell'esercito sia a sostegno della svolta del paese e dove invece potrebbe iniziare a far parte di un piano di epurazione, degli elementi ancora collegati al vecchio regime.

Inoltre, l'escalation di episodi di violenza, che hanno portato all'uccisione del nipote dell'ex presidente, rischia fortemente di distogliere l'attenzione della popolazione dalle vere motivazioni che hanno generato la protesta. Una caccia all'uomo, impegnerebbe le energie di questi giovani sul piano della pura vendetta, distaccato da quello degli interessi collettivi che li ha caratterizzati finora. In questo modo, in un momento di massima fragilità, il destino della Tunisia potrebbe essere deciso dall'intervento di un qualsiasi potere forte, qualora mancasse un attento controllo. E' necessario che le figure più significative della protesta (sindacati, ordini professionali e società civile in genere) escano dall'anonimato, in cui erano stati ricacciati dalla dittatura, si impegnino per lo sviluppo di un'organizzazione politica. Soltanto nella pratica del pluralismo e nella corretta rappresentazione delle diverse istanze presenti nel Paese, si potrà creare un laboratorio, che riesca a dare un indirizzo concreto agli eventi, gettando solide basi per la nascita di una nuova Tunisia.

Agli Stati Generali della Precarietá 2.0 si prepara lo sciopero

0 commenti

di Davide Piccardo

Precarietá è un termine entrato prepotentemente nel vocabolario comune da almeno una decina d’anni, un parola che viene pronunciata sempre più spesso, e viene pronunciata, anche da chi non se lo sarebbe mai aspettato. Si espande a macchia d’olio e sembra non voler risparmiare nessuno, travolge diritti acquisiti e non fa differenza tra generazioni, anche se ha un debole per i giovani.
Quando sei precario hai ben pochi diritti, non esistono le ferie, e normalmente è meglio, perchè non avresti i soldi per partire, è meglio che non ti ammali perchè a fine mese al posto dei 1000 euro te ne troveresti 800, dimenticati la pensione,  non pensare di avere un figlio, la maternitá non esiste e, soprattutto, se aspetti un bambino probabilmente il tuo contratto non sará rinnovato. Vuoi comprare casa? Ci dispiace, non basta piú essere pronti a pagare uno stipendio intero ogni mese per 30 anni per avere un tetto sulla testa, al mutuo non tu non puoi accedere. Non offri abbastanza garanzie.

L'avvento della precarietà risponde a cause differenti, da una parte c'è la terziarizzazione dell'economia, la riduzione del lavoro in fabbrica, la crescita degli impiegati nella  produzione intellettuale nel “primo mondo”, cosa che implica in certi casi una maggiore flessibilità del lavoro; dall'altra parte, è in corso una guerra contro i diritti dei cittadini-lavoratori; una guerra che precarizza non solo il lavoro, ma l’intera esistenza, la formazione del sapere e la ricerca. Si utilizza come pretesto l'evoluzione dell'economia globale per accentuare lo sfruttamento delle persone, aumentare i profitti ed imporre una concezione del lavoro ottocentesca.
Questo processo determina di fatto l'esistenza di una massa di lavoratori senza diritti.Le cifre fornite dagli esperti sono impressionanti, si parla di una percentuale di lavoratori precari che sfiora il 70% dei lavoratori totali; questa cifra spiegano, si otterrebbe sommando il 28% di lavoro nero ai contratti atipici e a quelli delle imprese con meno di 15 dipendenti, e per questo non tutelate dall’articolo 18. Buona parte di queste persone,  sono  sottoposte  al ricatto quotidiano, e apparentemente senza nessuna forza contrattuale, persone intrappolate in un'attesa infinità della stabilità. Anche le organizzazioni sindacali classiche, si sono rivelate a dir poco insufficienti ad arrestare l'avanzata della precarietà, l'incapacità di opporsi adeguatamente alla legge Treu e successivamente alla legge 30  lo dimostrano. Attualmente gli stessi sindacati sono percepiti da chi si occupa di precarietà, come soggetti troppo concentrati sulla difesa di un modello residuale e poco propensi a farsi portavoce delle nuove esigenze del preariato.
Per cercare di trovare e proporre soluzioni a questa situazione, il 15 e il 16 gennaio, si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà. La data non è stata scelta a caso, visto che, il 23 gennaio, sará l’ultimo giorno valido per impugnare i contratti di lavoro precario davanti al giudice, poi secondo la norma stabilita nel “Collegato Lavoro”, ci sará un condono totale.

La seconda edizione di questa due giorni di dibattiti e laboratori sul tema ha una sede emblematicamente molto precaria. Il Centro Sociale La Fornace, appena rioccupato dopo lo sgombero della settimana scorsa. Gli Stati Generali puntano ad elaborare un “punto di vista precario”, pensare e proporre un nuovo modello di stato sociale che non si basi più esclusivamente sul lavoro ma che si fondi sulla cittadinanza. In questo senso si muovono, per esempio,  gli interventi del Professor Fumagalli, esperto in materia, che dimostrano come sarebbe doveroso ed economicamente sostenibile un nuovo sistema di welfare che sia in grado di rispondere all’attuale condizione lavorativa di milioni di persone. Il Welfare Metropolitano per esempio si fonderebbe sull’istituzione di un reddito minimo di cittadinanza, in grado di garantire la possibiltá per i cittadini di non sottostare al ricatto del lavoro iniquo.

Riscuote un grande interesse il workshop: Precarietà migrante,migranti nella precarietà, lavoro, lotte e razzismo”; i partecipanti analizzano la particolare condizione dei migranti precari, soggetti doppiamente sfavoriti e discriminati dai datori di lavoro e spesso dell’ostilitá delle istituzioni che condizionano il loro diritto ad esistere ad un contratto di lavoro regolare ed indeterminato al quale non riescono ad accedere. Si parla del prossimo Primo Marzo, giorno che evoca il primo sciopero dei migranti compiuto nel 2010 e che le organizzazioni dei migranti vogliono ripetere con una maggiore attenzione alla tematica del lavoro.

Tra i protagonisti delle due giornate c'e il collettivo “Intelligence Precaria” che si dedica alla realizzazione  e diffusione di studi approfonditi sulla tematica; un esempio di  utilissima pubblicazione sono  i  “Quaderni di San Precario”, un volume che contiene ricerche ed interventi di vari ricercatori sulle questione legislative legate alla precarietá.

Nel pomeriggio del sabato si analizzano i fatti di Roma del 14 dicembre che molti non esitano a definire come uno spartiacque, quest’esplosione di rabbia, che per la prima volta in tanti anni è stata sostenuta dalla gran parte del movimento, ha stupito tutti. Anche i piú esperti conoscitori delle piazze sono rimasti totalmente sorpresi dalla forza e dalla spontaneitá degli scontri. A Roma, giovani studenti delle superiori, universitari, precari, operai metalmeccanici e disoccupati hanno manifestato tutta la loro frustrazione ed indignazione. Questa è la presa di coscienza di un' intera generazione, dicono i molti.

Riuscire ad identificare le componenti sociali che esprimono questo disagio, riuscire a tessere reti di comunicazione e collaborazione con queste parti di societá sará una delle prossime grandi sfide per il movimento dei precari che ha come prioritá immediata stabilire forme di autorganizzazione che includano tutti quei soggetti che subiscono la precarizzazione.

La parola d’ordine per il futuro, sembra essere “sciopero precario”, un possibile sciopero che, ad ascoltare gli applausi della platea, si fará presto.

I veli piú pericolosi sono quelli dentro la testa

0 commenti

di Sumaya Abdel Qader
 
In questi giorni torna in auge il dibattito sul burqa e sul niqab (i veli usati da alcune donne musulmane per  coprire interamente corpo e viso). Promotori di tale discorso sono nuovamente i francesi. Infatti  6 mesi fa è stata istituita una commissione parlamentare affinché studiasse la questione burqa e niqab per decidere il da farsi a tal proposito, pensando di  vietarlo totalmente. Invece, alla fine del lungo periodo di studio e riflessione, la commissione così si è espressa: il burqa e il niqab «offendono i valori nazionali della République». 

La questione velo islamico in generale non è affare nuovo nel paese della  liberté, égalité e fraternité. Infatti già qualche anno fa si discusse sul velo semplice, quello che scopre il viso detto Hijab, che venne vietato alle musulmane che frequentano le scuole e i luoghi pubblici in nome della laicità (provvedimento che colpisce in diversa misura anche fedeli di altre religioni vietandogli l’ostentazione dei loro simboli).

Tornando a oggi, la discussione sul velo integrale sembra ridondante visto che, appunto, una legge sui simboli religiosi esiste già (se proprio dobbiamo classificare il velo come un simbolo e, per le musulmane non lo è). Comunque, la legge sul divieto totale di indossare il burqa e niqab non arriva, mentre giungono delle disposizioni che vietano di indossare i sopracitati abiti nei luoghi pubblici, pena il rifiuto di corrispondere il servizio richiesto. In ogni modo la “soluzione al problema” non si trova.

Ma cos’è il hijab per le donne musulmane? E il niqab? Il hijab è l’abbigliamento che una donna porta in segno di devozione a Dio. La prescrizione arriva dal Corano (prima fonte giuridica dell’Islam), che di per sé resta generale e non spiega come debba essere questo “abbigliarsi”. Lo precisa però un detto del Profeta Muhammad (seconda fonte giuridica) in cui le indicazioni sono più chiare: deve essere un indumento che copra il corpo e il capo, non trasparente e neppure aderente. Restano scoperte le mani, il volto e secondo successive interpretazioni (terza fonte giuridica) anche i piedi. Dunque il niqab non compare come obbligo religioso nell’ortodossia islamica.

Allora, da dove prende origine? Oltre a essere una tradizione già presente in diversi contesti culturali del passato, questo fu ripreso anche dalle mogli del Profeta Muhammad come segno della loro distinzione, elevazione e rispetto. In seguito, alcune donne musulmane per imitarle o per eccesso di zelo hanno decisero si seguirne i passi. 

Col tempo, in alcuni contesti spazio temporali, la copertura del volto e del corpo sono state imposte alle donne e in molti casi questo atto è diventato funzionale all’arroganza maschile e a una forma patriarcale, che spesso si traduce in mero fanatismo, puro tradimento del messaggio originale dell’Islam e del senso spirituale profondo di devozione e di libertà nella scelta di adorare Dio.

Tra religione e tradizioni locali tribali di taluni paesi  si stabiliscono così divergenze e incoerenze non indifferenti. Da queste situazioni limite nasce il grande equivoco attorno alla comprensione dell’Islam. Da qui (ma non solo) l’accusa generalizzata nei confronti di questa fede e quindi dei suoi fedeli di essere contro le donne e di volerle sottomettere, confondendo continuamente piani diversi tra loro. Un equivoco rafforzato poi da diversi fatti storici tra cui i tragici attentati dell’11 settembre che hanno messo sotto i riflettori tutto il mondo islamico, spesso indiscriminatamente, trattandolo come blocco monolitico e immutabile.

Tornando alla Francia di oggi, è interessante cogliere e osservare che il dibattito sul niqab, e in generale sul velo, si intrecci con quello dell’identità nazionale che cerca di capire quali siano i valori della Repubblica e su chi sia  “il francese”, o forse di confermare quelli che da sempre si pensavano esser solidi e chiari principi della République. Valori repubblicani e laici versus valori individuali e libertà della persona, uno storico dibattito sulla funzione e sullo spazio d’azione dello Stato verso la “cosa privata”.

Ma è davvero su questo piano che si sta sviluppando il discorso? Oppure dobbiamo preoccuparci di una “deriva”  anti islamica che possa incidere e condizionare le agende politiche? I politici dicono di no. Proviamo a crederci. Però alla domanda “burqa e niqab si o no” è sottesa questa:  l’islam è compatibile con la democrazia?

Si può dunque parlare di esigenza e urgenza di intervenire sull’abbigliamento di una manciata di donne completamente coperte creando un dibattito pubblico spesso fuorviante che ovviamente non mette solo in discussione queste scelte (laddove son tali) ma l’ intero mondo di fedeli musulmani  (un miliardo e mezzo di anime)?

Tornando al nostro tema, mi sembra troppo facile alla fine prendersela con i simboli senza pensare alle persone. Perché parlando di niqab e burqa parliamo di donne. Donne che sovente scelgono di indossarlo. Specie da questa parte del mondo dove siamo lontani da certe società patriarcali e tradizioni tribali. Tra l’altro possono stupire le stime francesi che ci dicono che sui 5 milioni di musulmani solo 1900 donne portano il niqab e di queste i due terzi sono francesi convertite all’islam. Una forte scelta che viene vissuta come segno di alta devozione a Dio, estrema sicuramente ma non diversa dalla scelta di una monaca di clausura che vuole donarsi al Signore, isolandosi dal mondo intero. Nessuno ha mai discusso sul loro livello di integrazione sociale o penserebbe mai di liberarle dal loro “ghetto”,  tanto meno i  musulmani che anzi le rispettano profondamente .

Altra questione sollevata è il presunto aumento delle donne musulmane che scelgono di  indossare il  niqab. Io invece mi chiedo: non è che ce ne stiamo accorgendo solo ora, della loro esistenza? E anche se questa lieve crescita fosse reale, potremmo leggerla come sintomo di un aumento dell’estremismo o come radicalizzazione nelle rivendicazioni  identitarie in relazione alla pressione percepita?

Beh, solo questo sarebbe profondamente indicativo di una reazione post-11 settembre che ha visto la lotta all’estremismo islamico trasformarsi in una lotta all’islam (appunto  nella percezione di molti musulmani, percezione consolidata anche dalla crescente strumentalizzazione fatta da una parte del  mondo politico e intellettuale occidentale).

Ma guardiamo ora al nostro paese. L’Italia non è uno stato propriamente laico. Diversamente dalla Francia, dove lo Stato non interviene nell’affare religioso,  non prevede simboli religiosi nei luoghi pubblici e resta indifferente alle religioni con attitudine “esclusivista”, l’Italia, semmai, si pone con la sua Costituzione,  più come uno Stato  “pluri religioso”. L’Italia non è indifferente alle religioni. Abbiamo difatti perfino un concordato con la Chiesa che solo dall’84  non vede più in vigore il principio secondo cui : «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».

Questo ci deve far riflette sulla superficiale tentazione che alcuni politici hanno nel voler  “copiare e incollare” leggi o provvedimenti di altri Stati, che hanno una storia e percorso differente al nostro. Una legge “mirata” anti niqab in Italia è fuori luogo. Per una manciata di niqab (se ne stimano non più di 200 in Italia!)  non si scomoda un intero Parlamento e non si mette in “agitazione” un paese intero! Bastano  le leggi che abbiamo. Le donne che lo indossano sono tenute a farsi riconoscere dal pubblico ufficiale o da chi ne abbia la facoltà di chiederlo.

La sottoscritta certo non incoraggia il niqab, ma crede profondamente in quegli articoli costituzionali che tutelano la libertà personale (art. 13 Cost.),  la libertà di circolazione (art. 16 Cost.), la libertà religiosa (art. 19 Cost.) e la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Come può questo conciliare con un divieto d’abbigliamento (se liberamente scelto) in nome dell’imposizione di una libertà? Questo ha l’aria di voler stabilire una “legge speciale, ad hoc”.L’urgenza  semmai è di migliorare e aumentare la lotta alla criminalità, alla mafia, all’evasione fiscale, all’inquinamento, al clientelarismo, risanare la politica fatta di scontri e opposizioni sterili  e valorizzare meritocrazia e gioventù, questo solo per fare alcuni esempi. Non c’è un allarme di ordine pubblico riguardante il niqab.  Il rischio semmai è di ottenere risultati opposti:  isolare le donne che lo portano per costrizione, punire le donne che lo scelgono liberamente, radicalizzare le posizioni di molti a favore degli estremisti. Sarebbe invece utile pensare di sostenere le donne che subiscono violenze e costrizioni, non discriminare le libere donne che scelgono di portare il hijab (quello che scopre il viso) dando pari opportunità a tutte con una politica inclusiva.  L’obiettivo è la serena interazione e cooperazione sociale a prescindere dalle scelte di fede, nel pieno rispetto delle leggi del nostro Stato, che non smetterò mai di ribadire, sono pienamente compatibili con l’Islam.

Interessante la proposta del ministro Carfagna, fatta a Repubblica Tv, di costituire un gruppo di lavoro con donne immigrate e di fede islamica per approfondire questo e altri importanti temi legati alle donne. Un modo per non parlare solo delle donne ma con le donne stesse.  Da oggetto a soggetto del dibattito, non è cosa indifferente in un’ottica interattiva e costruttiva.

D’altra parte la comunità musulmana deve continuare e aumentare l’impegno e l’opera di responsabilizzazione volto a combattere ogni forma di denigrazione, violenza e non rispetto verso le donne. I veli che più devono spaventare sono quelli dentro e non fuori la testa. 

Precariato, nuovi diritti e reddito di cittadinanza

0 commenti


di Paolo Gonzaga

Il presidente dell’Inps,  lo scorso 6 ottobre, sulle pagine del Corriere della Sera ha chiosato al convegno dell’Ania e Consumatori: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. Sui quotidiani si evidenza che “questo significa che, mentre i lavoratori che entro 12 mesi raggiungono il diritto al pensionamento possono consultare online quanto riscuoteranno, per i precari l’incertezza sulle cifre è assoluta. I contributi che pagano oggi, ovvero il 26% del loro stipendio, finisce nelle casse dell’istituto di previdenza per pagare nonni e genitori. Non certo il loro futuro”.
Questa notizia dovrebbe farci riflettere sui cambiamenti in atto, sul fatto che i sindacati tradizionali non hanno ancora compreso l’importanza della tutela del nuovo soggetto centrale del paradigma produttivo della post-modernità, il precario, e che se non tentiamo di rappresentarci noi stessi e non proviamo a portare avanti le istanze di rivendicazioni di base per la vasta gamma di soggetti che rientrano nella categorie della precarietà, non ci sarà nessuno altro a farlo.   
Proprio perché il fordismo-taylorismo è terminato assieme al 20esimo secolo, bisogna prendere atto che la situazione sociale è completamente cambiata e non si può non prendere atto del passaggio del testimone epocale che è avvenuto senza dubbio almeno dai primi anni ’70: il soggetto centrale motore del cambiamento, la nuova figura destinata a rappresentare gli sfruttati, non è più l’operaio-massa della Fiat e dei grandi complessi industriali ma è ormai rappresentata da quello che alcuni marxisti eretici avevano chiamato “l’operaio-sociale” già nei primi anni ’70.
L’operaio sociale è forte e presente più che mai, deve solo ancora acquisire la coscienza di classe. Chi è l’operaio sociale oggi? E’ il precario. Oggi, nella società della post-modernità, il precariato è ormai una condizione diffusa e provata per almeno un periodo della propria vita anche dai pochi che sono riusciti successivamente a lavorare con forme contrattuali più tutelanti sul piano dei diritti, cosa comunque ormai rarissima. Personalmente però credo che non sia la precarietà in sé a costituire il problema principale, non so quanti vorrebbero tornare al vecchio posto fisso, garantito ma spesso noioso e frustrante, ammesso sia possibile nell’economia globale in cui viviamo e in un mondo dove la precarizzazione del lavoro, dei diritti, delle libertà è in piena attuazione, in un sistema economico che fa dello sfruttamento più brutale la sua caratteristica principale, in una finanza sempre più virtuale. In Italia la sinistra, sindacati in testa, non riesce ancora a capire il cambiamento radicale del paradigma e continua perciò a giocare in difesa per quanto riguarda le politiche del welfare, concentrandosi esclusivamente su lotte per difendere conquiste antiche e legittime e oggi sotto attacco, come il continuo slittare in avanti dell’età pensionabile, l’orario di lavoro nelle fabbriche… Siamo d'accordo e saremo sempre pronti a lottare per difendere le conquiste storiche del movimento operaio come avverrà a Roma sabato prossimo con la manifestazione della Fiom, ma dobbiamo rilanciare rispetto alle nuove figure del lavoro. Gran parte delle risorse destinate al welfare sono spese per le casse integrazioni, per sussidi di disoccupazione a cui i precari non potranno nemmeno aspirare mai a chiedere, perché le caratteristiche per accedervi sono legate all’economia fordista del secolo precedente, non contemplano i contratti atipici cui sono sottoposti i nuovi precari e sono praticamente disegnati per tipologie di lavoratori corrispondenti ad un modello economico ormai superato. Oppure si spendono miliardi per la formazione professionale che spesso consiste in corsi di formazione fantasma o nel migliore dei casi, inutili, quando non sia invece puro sfruttamento gratuito di manodopera altamente scolarizzata, che per tentare di entrare nel mondo del lavoro ormai passa da un master (a pagamento) a uno stage gratuito sempre più spesso.
Nell’epoca dell’operaio sociale non è più la produzione materiale di beni fisici l’elemento centrale dell’economia, ma la produzione intellettuale ed il lavoro cognitivo. I precari di oggi assorbono conoscenze e saperi e li diffondono nella società, perciò producono ricchezza, contribuiscono all’arricchimento generale. Gli individui nel loro vivere insieme producono ricchezza, e se tutti noi provochiamo ricchezza mentre viviamo, cooperando tra di noi nei più svariati campi, è giusto che tutti noi riceviamo un compenso per questa ricchezza prodotta tramite la cooperazione. Mentre viviamo produciamo saperi, conoscenze, raffiniamo tecniche collettive, produciamo valore.
Si tratta perciò di elaborare un nuovo welfare, che ruoti intorno all’idea di una società solidale. Le nuove tecnologie possono aiutarci a lavorare meno e ad avere più tempo libero. Ad esempio i servizi di cura alle persone devono essere intensificati, è assurdo che i nostri anziani debbano passare la vecchiaia in strutture tristi e alienanti, mentre potrebbero godere del calore di una comunità che li circonda.  
I precari sono ormai sempre di più e una delle prime rivendicazioni di questo blocco sociale deve essere il reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza o di esistenza dovrebbe, conformemente al paradigma attuale, essere diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro situazione lavorativa. Questo per le ragioni sopra esposte, oltre che per altri motivi che è troppo lungo qui illustrare. Certamente però sarebbe velleitario cercare di passare dal regime attuale di assenza totale di supporto finanziario ai precari e di mezzi che li tutelino nei periodi di disoccupazione forzata, al reddito di cittadinanza universale. Bisognerà passare per delle fasi intermedie che contemplino inizialmente solo un reddito minimo per tutti coloro che si trovino senza un’occupazione, per qualsiasi motivo e indipendentemente dal lavoro svolto o meno in precedenza, per cui ad esempio lo studente che esce dall’università e magari dal dottorato, non deve poi accettare anni di stage non pagati o borse di studio mortificanti, master ultra-costosi per poi magari doversi arrendere e fare il cameriere nel week-end fino ad abbandonare tutto perché con le mance guadagna molto di più e anche lui in fondo magari nel frattempo si è formato una famiglia. Tutti coloro che hanno la partita Iva, nuova frontiera dello sfruttamento, dovrebbero poter contare su un minimo income nei periodi di crisi, tutti coloro che lavorano a progetto o con contratti a tempo devono avere la garanzia di una continuità nel loro reddito, così da eliminare gli aspetti più deleteri della precarietà: l’incertezza esistenziale, l’angoscia per il futuro…………
Sul piano pragmatico il reddito di cittadinanza è un’opzione realizzabile, e una sinistra che voglia ritrovare una ragione di esistenza dovrebbe puntare molto sull’istanza del reddito per tutti i disoccupati, nella cornice di un progetto complessivo per un nuovo welfare che prenda atto del cambiamento del paradigma lavorativo e produttivo. Il terzo settore, il settore della cura alle persone, dell’ assistenza sociale e della solidarietà potrebbe diventare un settore che crea lavoro e benessere per tutta la società.    
D’altra parte l’esistenza di un reddito di cittadinanza, ma anche solo di un semplice reddito minimo garantito come primo passo, avrebbe effetti positivi anche per i lavoratori dei settori tradizionali del lavoro materiale, perché non ci sarebbero più i tanti disperati che oggi accettano un lavoro per pochi soldi: se una persona riceve una cifra al mese, difficilmente sarà disponibile a farsi sfruttare per meno o per la stessa cifra o anche per una leggermente superiore. In questo modo molti dei conflitti tra poveri che caratterizzano le società moderne e l’Italia in modo particolare scomparirebbero.
Questa misura così importante potrebbe essere sovvenzionata da una tassazione sulle rendite da introdurre, tagliando dalle spese militari, combattendo seriamente il lavoro nero e l’evasione fiscale.
Fatte queste considerazioni teoriche, credo che il Popolo Viola nelle sue varie articolazioni, proprio per la sua composizione sociale, sia il soggetto politico che meglio potrebbe rappresentare queste istanze. Cominciamo a far sì che la discussione diventi centrale sui massmedia mainstream oltre che sul web, elaboriamo una piattaforma rivendicativa da sottoporre a sindacati tradizionali e di base, creiamo nuove alleanze con altre realtà di precari organizzati e mettiamo queste istanze all’inizio della nostra agenda politica. L’obiettivo minimo da raggiungere nella fase attuale è quello di un assegno per tutti i disoccupati, a prescindere dai contratti che abbiano avuto in precedenza. Questa misura è già presente in tutta Europa e solo Italia e pochi altri non prevedono tale fondamentale ammortizzatore sociale: poniamolo al vertice delle nostre rivendicazioni, iniziando da Roma sabato prossimo! Continuità di reddito per i precari! 

Italia, nuovi italiani, nuova sinistra

0 commenti

di Davide Piccardo

Un paese alla deriva, un governo inesistente, un’opposizione smarrita. Ci sono tutti gli ingredienti per una storia dalla fine tragica.
L’assenza di una qualsiasi politica di sviluppo industriale e di difesa del lavoro, un’ illegalità che sembra inarrestabile, il dilagare delle mafie, l’evasione galoppante, il disprezzo dell’ambiente, la crisi costante e progressiva della scuola e della ricerca, un razzismo ed un’intolleranza dilagante sono solo alcuni dei problemi che risultano anche ad un’analisi superficiale.
Purtroppo, il governo non sa governare. Quando non è occupato a promuovere leggi a favore del capo e delle sue aziende, non fa niente. Semplicemente perché non lo sa fare. Incompetenza, inettitudine ed assenza totale di idee caratterizzano una politica fatta di annunci e sparate che nascondono il vuoto.
L’avanzata leghista, è, viste le tendenze demografiche, un fenomeno a breve termine, presto finirà ed i leghisti devono approfittare del momento. Anche loro sanno che un giorno, dovranno recitare il mea culpa ed andare in pellegrinaggio a Rabat, Bucarest o a Pechino, sull’esempio di Fini a Gerusalemme.
Chi spererebbe che queste condizioni costituiscano le basi per un’imminente ripresa della sinistra, ha buone probabilità di essere deluso.
Una sinistra frammentata e confusa, rintronata dai colpi mediatici del berlusconismo e dai ripetuti suicidi dei leader del PD, non trova la strada del dialogo interno ne la capacità di interpretare i tempi. C’è chi, individuando come priorità strategica lo “sfondamento al nord”, pensa che interpretare i bisogni dei cittadini, significhi inseguire la Lega sul terreno della repressione, del razzismo e del cinismo, con risultati ormai ben noti.
La speranza di riscatto è affidata ai nuovi e futuri italiani, sembrerebbe banale dirlo, quei giovani, indicati come futuro da sempre ed ignorati nella continuità del presente. Si, perché l’Italia invecchia, lo dicono i dati, ma non solo anagraficamente, invecchiano anche i giovani, invecchiano restando bambini, stretti tra la difficoltà oggettive di un paese che non cresce e la loro paura, la loro disarmante arrendevolezza. Troppo poveri per uscire di casa e troppo ricchi per doversene andare. Chi è vecchio non cambia niente, ed è giusto così.
Ma. Abbiamo la fortuna di vivere un periodo di trasformazione interessante, senza dubbio il fenomeno che segnerà piu a fondo questi anni ed il futuro del paese è quello dell’immigrazione. L’Italia che monoetnica e monoculturale non lo è mai stata, vive un processo di trasformazione che approfondisce ed arricchisce la sua “biodiversità”.
Questa trasfusione che ci fa il mondo, è necessaria ed urgente, è una bombola d’ossigeno.
Le braccia arrivate si incorporano subito, il loro lavoro, qualche volta anche i cervelli, ma i cuori no, non per ora. Invece ne abbiamo tanto bisogno.
Si, perché l’atmosfera che si respira è pesantemente intrisa di pessimismo e rassegnazione, la parola d’ordine sia per quanto riguarda il lavoro che per la politica è, nel migliore di casi, resistenza. Una resistenza passiva, cui manca lo slancio in avanti. Traumatizzati dall’impotenza di fronte ad ogni sorta di abuso, molti si abbandonano al qualunquismo.
La sinistra deve decidere se pensare al prossimo anno, rincorrendo derive xenofobe e securitarie o pensare ai prossimi decenni includendo come priorità i nuovi italiani ed i loro diritti nella sua agenda politica.
Un’illusione ingenua e frequente vuole gli stranieri geneticamente schierati a sinistra, mentre, i pochi studi disponibili ci dicono che tra gli immigrati c’è una preferenza per la sinistra maggiore rispetto a quella dell’elettorato italiano. Senza un lavoro politico, si rischia di perderla. In Francia gli eredi della destra razzista raccolgono non pochi consensi tra i cittadini di origine straniera e un giorno non lontano potremmo vedere le camicie verdi a caccia di voti fuori dalle moschee.
Le primarie del centro-sinistra, con l’apertura alla partecipazione degli stranieri residenti sono un bel passo avanti, adesso, si deve procedere verso l’inclusione reale di questi cittadini nelle dinamiche dei partiti e nell’amministrazione della cosa pubblica.
La speranza dei nuovi italiani, la loro voglia di emergere, il coraggio di rischiare, il bisogno di farlo potrebbero essere contagiosi, a patto che incontrino la parte migliore di questo paese.