di Paolo Gonzaga
Il presidente dell’Inps, lo scorso 6 ottobre, sulle pagine del Corriere della Sera ha chiosato al convegno dell’Ania e Consumatori: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. Sui quotidiani si evidenza che “questo significa che, mentre i lavoratori che entro 12 mesi raggiungono il diritto al pensionamento possono consultare online quanto riscuoteranno, per i precari l’incertezza sulle cifre è assoluta. I contributi che pagano oggi, ovvero il 26% del loro stipendio, finisce nelle casse dell’istituto di previdenza per pagare nonni e genitori. Non certo il loro futuro”.
Questa notizia dovrebbe farci riflettere sui cambiamenti in atto, sul fatto che i sindacati tradizionali non hanno ancora compreso l’importanza della tutela del nuovo soggetto centrale del paradigma produttivo della post-modernità, il precario, e che se non tentiamo di rappresentarci noi stessi e non proviamo a portare avanti le istanze di rivendicazioni di base per la vasta gamma di soggetti che rientrano nella categorie della precarietà, non ci sarà nessuno altro a farlo.
Proprio perché il fordismo-taylorismo è terminato assieme al 20esimo secolo, bisogna prendere atto che la situazione sociale è completamente cambiata e non si può non prendere atto del passaggio del testimone epocale che è avvenuto senza dubbio almeno dai primi anni ’70: il soggetto centrale motore del cambiamento, la nuova figura destinata a rappresentare gli sfruttati, non è più l’operaio-massa della Fiat e dei grandi complessi industriali ma è ormai rappresentata da quello che alcuni marxisti eretici avevano chiamato “l’operaio-sociale” già nei primi anni ’70.
L’operaio sociale è forte e presente più che mai, deve solo ancora acquisire la coscienza di classe. Chi è l’operaio sociale oggi? E’ il precario. Oggi, nella società della post-modernità, il precariato è ormai una condizione diffusa e provata per almeno un periodo della propria vita anche dai pochi che sono riusciti successivamente a lavorare con forme contrattuali più tutelanti sul piano dei diritti, cosa comunque ormai rarissima. Personalmente però credo che non sia la precarietà in sé a costituire il problema principale, non so quanti vorrebbero tornare al vecchio posto fisso, garantito ma spesso noioso e frustrante, ammesso sia possibile nell’economia globale in cui viviamo e in un mondo dove la precarizzazione del lavoro, dei diritti, delle libertà è in piena attuazione, in un sistema economico che fa dello sfruttamento più brutale la sua caratteristica principale, in una finanza sempre più virtuale. In Italia la sinistra, sindacati in testa, non riesce ancora a capire il cambiamento radicale del paradigma e continua perciò a giocare in difesa per quanto riguarda le politiche del welfare, concentrandosi esclusivamente su lotte per difendere conquiste antiche e legittime e oggi sotto attacco, come il continuo slittare in avanti dell’età pensionabile, l’orario di lavoro nelle fabbriche… Siamo d'accordo e saremo sempre pronti a lottare per difendere le conquiste storiche del movimento operaio come avverrà a Roma sabato prossimo con la manifestazione della Fiom, ma dobbiamo rilanciare rispetto alle nuove figure del lavoro. Gran parte delle risorse destinate al welfare sono spese per le casse integrazioni, per sussidi di disoccupazione a cui i precari non potranno nemmeno aspirare mai a chiedere, perché le caratteristiche per accedervi sono legate all’economia fordista del secolo precedente, non contemplano i contratti atipici cui sono sottoposti i nuovi precari e sono praticamente disegnati per tipologie di lavoratori corrispondenti ad un modello economico ormai superato. Oppure si spendono miliardi per la formazione professionale che spesso consiste in corsi di formazione fantasma o nel migliore dei casi, inutili, quando non sia invece puro sfruttamento gratuito di manodopera altamente scolarizzata, che per tentare di entrare nel mondo del lavoro ormai passa da un master (a pagamento) a uno stage gratuito sempre più spesso.
Nell’epoca dell’operaio sociale non è più la produzione materiale di beni fisici l’elemento centrale dell’economia, ma la produzione intellettuale ed il lavoro cognitivo. I precari di oggi assorbono conoscenze e saperi e li diffondono nella società, perciò producono ricchezza, contribuiscono all’arricchimento generale. Gli individui nel loro vivere insieme producono ricchezza, e se tutti noi provochiamo ricchezza mentre viviamo, cooperando tra di noi nei più svariati campi, è giusto che tutti noi riceviamo un compenso per questa ricchezza prodotta tramite la cooperazione. Mentre viviamo produciamo saperi, conoscenze, raffiniamo tecniche collettive, produciamo valore.
Si tratta perciò di elaborare un nuovo welfare, che ruoti intorno all’idea di una società solidale. Le nuove tecnologie possono aiutarci a lavorare meno e ad avere più tempo libero. Ad esempio i servizi di cura alle persone devono essere intensificati, è assurdo che i nostri anziani debbano passare la vecchiaia in strutture tristi e alienanti, mentre potrebbero godere del calore di una comunità che li circonda.
I precari sono ormai sempre di più e una delle prime rivendicazioni di questo blocco sociale deve essere il reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza o di esistenza dovrebbe, conformemente al paradigma attuale, essere diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro situazione lavorativa. Questo per le ragioni sopra esposte, oltre che per altri motivi che è troppo lungo qui illustrare. Certamente però sarebbe velleitario cercare di passare dal regime attuale di assenza totale di supporto finanziario ai precari e di mezzi che li tutelino nei periodi di disoccupazione forzata, al reddito di cittadinanza universale. Bisognerà passare per delle fasi intermedie che contemplino inizialmente solo un reddito minimo per tutti coloro che si trovino senza un’occupazione, per qualsiasi motivo e indipendentemente dal lavoro svolto o meno in precedenza, per cui ad esempio lo studente che esce dall’università e magari dal dottorato, non deve poi accettare anni di stage non pagati o borse di studio mortificanti, master ultra-costosi per poi magari doversi arrendere e fare il cameriere nel week-end fino ad abbandonare tutto perché con le mance guadagna molto di più e anche lui in fondo magari nel frattempo si è formato una famiglia. Tutti coloro che hanno la partita Iva, nuova frontiera dello sfruttamento, dovrebbero poter contare su un minimo income nei periodi di crisi, tutti coloro che lavorano a progetto o con contratti a tempo devono avere la garanzia di una continuità nel loro reddito, così da eliminare gli aspetti più deleteri della precarietà: l’incertezza esistenziale, l’angoscia per il futuro…………
Sul piano pragmatico il reddito di cittadinanza è un’opzione realizzabile, e una sinistra che voglia ritrovare una ragione di esistenza dovrebbe puntare molto sull’istanza del reddito per tutti i disoccupati, nella cornice di un progetto complessivo per un nuovo welfare che prenda atto del cambiamento del paradigma lavorativo e produttivo. Il terzo settore, il settore della cura alle persone, dell’ assistenza sociale e della solidarietà potrebbe diventare un settore che crea lavoro e benessere per tutta la società.
D’altra parte l’esistenza di un reddito di cittadinanza, ma anche solo di un semplice reddito minimo garantito come primo passo, avrebbe effetti positivi anche per i lavoratori dei settori tradizionali del lavoro materiale, perché non ci sarebbero più i tanti disperati che oggi accettano un lavoro per pochi soldi: se una persona riceve una cifra al mese, difficilmente sarà disponibile a farsi sfruttare per meno o per la stessa cifra o anche per una leggermente superiore. In questo modo molti dei conflitti tra poveri che caratterizzano le società moderne e l’Italia in modo particolare scomparirebbero.
Questa misura così importante potrebbe essere sovvenzionata da una tassazione sulle rendite da introdurre, tagliando dalle spese militari, combattendo seriamente il lavoro nero e l’evasione fiscale.
Fatte queste considerazioni teoriche, credo che il Popolo Viola nelle sue varie articolazioni, proprio per la sua composizione sociale, sia il soggetto politico che meglio potrebbe rappresentare queste istanze. Cominciamo a far sì che la discussione diventi centrale sui massmedia mainstream oltre che sul web, elaboriamo una piattaforma rivendicativa da sottoporre a sindacati tradizionali e di base, creiamo nuove alleanze con altre realtà di precari organizzati e mettiamo queste istanze all’inizio della nostra agenda politica. L’obiettivo minimo da raggiungere nella fase attuale è quello di un assegno per tutti i disoccupati, a prescindere dai contratti che abbiano avuto in precedenza. Questa misura è già presente in tutta Europa e solo Italia e pochi altri non prevedono tale fondamentale ammortizzatore sociale: poniamolo al vertice delle nostre rivendicazioni, iniziando da Roma sabato prossimo! Continuità di reddito per i precari!
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